venerdì 26 aprile 2013

Curriculì curriculà (again and again)


«Azienda affermata cerca persona giovane, dinamica e volenterosa da inserire nel proprio organico. La ricerca è rivolta a  laureati in discipline umanistiche/giuridiche con il massimo dei voti, età massima 25 anni, con esperienza di almeno 5 anni nella mansione. Richiesta un'ottima conoscenza delle lingue (scritte e parlate): inglese, cinese, araba, klingon e sindarin, ottima conoscenza del PC (pacchetto Office, Facebook, posta elettronica, SAP, AS400, HTML, CAD, JAVA, CCP, CQC, PPT), ottime doti relazionali, di problem solving, self-control, e ottima dialettica. Avranno titolo preferenziale persone di bella presenza con ottima conoscenza del primo soccorso. Automunito. Essenziale residenza a non più di 5 km dal luogo di lavoro. Mansione: centralinista-portacaffè.

Contratto: 3 mesi di stage non retribuito.

Se interessati inviare il CV a: info(at)richiestedisumane.it. Seguirà colloquio conoscitivo con test psico-attitudinale-culturale. L'offerta è rivolta ambosessi (D.Lgs 198/2006)».


«Alla cortese attenzione del resposabile della selezione del personale.
Io sottoscritta Lucy ********, nata a ********** il ********** e residente a **********, desidero sottoporre alla sua cortese attenzione la mia candidatura per un'eventuale assunzione.


Sono una persona normale, con due gambe, due braccia, due mani e una testa (pensante e funzionante, ma non so quanto questo sia un bene). Ancora per quest'anno ho l'immensa fortuna di essere nella soglia dei 25 anni. Ho conseguito la maturità classica nella mia città con il massimo dei voti. La medesima valutazione ho ricevuto per la laurea triennale e per la laurea specialistica, per la quale la mia tesi ha ottenuto la dignità di stampa, dopo aver concluso nei cinque anni previsti (cosa non da poco) il mio percorso universitario. Nel frattempo, per non stare con le mani in mano e potermi mantenere da sola senza pesare sui miei genitori, mentre i miei colleghi universitari saltavano da una festa all'altra, ho dato lezioni private di latino, greco, italiano, inglese, francese, chimica, storia e fisica, cosa che faccio tuttora con grande entusiasmo malgrado la mancanza di stabilità.

Ho una buona conoscenza del pc; oserei dire ottima, per ricoprire il ruolo di centralinista-portacaffè (e anche addetta alla fotocopiatrice, immagino). Oltre a conoscere il pacchetto Office, che sembra essere imprescindibile nonostante sia un'assoluta ciofeca come il 90% dei prodotti Microsoft, ho una buona padronanza dei sistemi operativi Debian, Linux Mint e Ubuntu e so cavarmela con un Mac senza avere crisi isteriche o attacchi di panico. Le mie lauree in Lettere Classiche e in Filologia, Letterature e Storia dell'Antichità, apparentemente inutili, mi hanno obbligato a conseguire una conoscenza più che buona dell'inglese e del francese (sa com'è, da noi se non si conoscono almeno due lingue comunitarie non ci si laurea) e all'occorrenza so sopravvivere con lo spagnolo, il catalano, qualcosina in tedesco e due parole in croce di albanese (ma immagino non serva a molto). Ahimè, per l'arabo e il cinese dovrò attrezzarmi... ma prima mi illumini: quale arabo? Quello classico o quello maghrebino? No, perché c'è differenza, per esempio nella sintassi, e se devo farmi comprendere da un madrelingua non è cosa da poco. Con «cinese», poi, che cosa s'intende? Il cinese mandarino, parlato da appena 885 milioni di persone? O quale altro? Il gruppo sino-tibetano comprende, oltre al mandarino, altre 448 lingue. No, dico, solo per sapere. Giusto per non mettermi a studiare la lingua sbagliata.

Potrei scoprire di avere un sacco di doti, se solo avessi la possibilità di dimostrarle.

Mi perdoni, ma non capisco bene come sia possibile essere laureati e avere esperienza pluriennale con un'età massima di 25 anni; a quanto pare esistono degli esseri, non credo umani, dotati di tali requisiti, giacché costoro vengono SEMPRE richiesti negli annunci.
Probabilmente devo avere un quoziente intellettivo inferiore alla media, poiché non riesco nemmeno a capire come possa io fare esperienza se nessuno considera i miei CV dato che ho poca esperienza (perdoni il bisticcio).

Dubbi a parte, le comunico la mia più ampia disponibilità in tutto: definizione degli orari di lavoro, della tipologia di contratto, indirizzo di residenza, eventuali corsi di qualsivoglia genere e durata, pagamenti periodici per avermi dato la possibilità di arrivare almeno al colloquio, et cetera.

Dopo i miei ultimi colloqui, sono lieta di anticiparle che so quante e quali province ci sono in Piemonte, quanti kilobyte ci sono in un megabyte, i numeri da 0 a +infinito in inglese e da 1 a 10 in proto-indoeuropeo, che 4+4-8 fa 0 e che in media il colloquio per fare la portacaffè (pardon, centralinista) dura dalle due alle quattro ore in base al tipo di test presentato.

Prima di salutarla, ci terrei a rivolgerle una domanda: fino a vent'anni fa una persona con la licenza media inferiore, al massimo diploma liceale, era in grado di svolgere quasi ogni tipo di professione. Che differenza c'è tra un diplomato di allora e una laureata di oggi, come me, quando ci sediamo per la prima volta davanti a una scrivania? Sia detto senza alcun intento di offesa per i diplomati, naturalmente.

In attesa di un cortese riscontro, porgo cordiali saluti.

P.S.: la prego, almeno lei non abbia l'orrenda abitudine di non rispondere neppure "la sua richiesta è finita dritta dritta nel tritarifiuti". Basta anche solo un "crepi e sciopi al più presto" per sentirsi meno presa per il deretano. In caso contrario, se mai riuscirò a fare la professoressa in una scuola vera, preghi che suo figlio non mi abbia mai come docente. A lui non farò nulla di male, ma con lei mi divertirò molto il giorno dei colloqui scuola-famiglia».

giovedì 25 aprile 2013

Magistra, sed cuius rei?

Il lavoro dell'insegnante e quello del medico non sono così diversi, trovo. Il compito di entrambi è salvare vite: il medico dalla malattia e dalla morte, l'insegnante dall'ignoranza (fingendo di dimenticare che, come sta scritto in Qoelet, molto sapere, molto dolore). Sto imparando a amare l'ambiente delle lezioni private, poiché mi permette di stabilire un legame diretto con l'allievo. A tu per tu, si creano un rapporto e una confidenza che in una classe di venticinque, trenta persone è difficile trovare. Sei a contatto con emozioni e desideri, senza filtri che non siano il naturale pudore di un adolescente. A ricordarsi di come si era qualche anno prima e a saper leggere tra le righe, senza lo scudo del "gruppo" è più facile che la mente dell'allievo diventi quasi un libro aperto. Si comprende che cosa quella giovane mente si prefigge, come aiutarla a giungervi, e insegnante e allievo lavorano insieme, imparando ognuno dall'altro. Per quanto io altro non sia che una portatrice sana di sicuro precariato (Bersani dixit... il cantante, non il politico), a volte ho la sensazione di fare il lavoro più bello del mondo.

Per questo, quando mi sento dire da un'allieva in una situazione un po' problematica parole come «forse sarebbe meglio se fossi bocciata, almeno non mi passo un'estate di merda a studiare», avverto un senso di tristezza infinito. La sua resa come allieva è un mio fallimento come insegnante. E mi fa male, perché in tutta coscienza penso davvero di aver fatto tutto il possibile.
Forse ho lo stesso problema dei medici quando perdono qualche paziente: devono capire che non possono salvare tutti. Non sono dèi e ci sono cose che, molto semplicemente, sfuggono al loro controllo. Ma, fino a qualche giorno fa, io davvero avevo la presunzione di poter "salvare" tutti. Non perché io sia chissà chi, ma poiché ho sempre creduto fermamente che con la disciplina e la volontà si può arrivare a qualunque traguardo.
Se è così, quello che è mancato è la volontà. Io posso fare di tutto per far amare la materia a un'allieva, ma se le manca la voglia di impegnarsi e di farsi il mazzo non posso essere io a dargliela, né i genitori a comprargliela. Ma di chi è la colpa?

Sarà colpa mia? Non so dove posso aver sbagliato, ma non lo escludo a priori. Urge esame di coscienza.
Vogliamo dire che è colpa di un liceo classico torinese troppo elitario e pretenzioso per la preparazione che effettivamente dà, con una concezione malata di sé e dei suoi studenti, sempre teso a scremare tutto e tutti con pressioni psicologiche assurde per un adolescente, al punto da trasformarsi in un ospedale che cura i sani e respinge i malati? E diciamolo.
Vogliamo mettere in mezzo gli insegnanti ginnasiali, ipotizzare che alzino troppo l'asticella per il semplice gusto di operare un po' di sana selezione naturale? Nulla vieta di pensarlo.

Ma non è solo questo. Un po' ce l'ho anche con un certo tipo di genitori ricchi: i ricchi scemi, i ricchi ignoranti, quelli che a malapena sanno qual è la capitale d'Italia e si sono fatti i soldi nel periodo in cui bastava un qualsiasi pezzo di carta per lavorare. Gente che lavora milioni di ore al giorno, non bada ai figli e poi per mettersi l'anima a posto li vizia, se li compra. Quelli che quando la figlia porta a casa una sfilza di 4 le regalano l'iPhone 5.
E anche quelli che «tu fai il liceo classico perché io ho fatto il liceo classico, è un'ottima scuola e non si discute», senza considerare i desideri della figlia, le sue inclinazioni, le sue potenzialità e i suoi limiti, anche. Ricchi ignoranti anche loro, in un certo senso, ché non basta lo studio a rendere intelligenti. 
[Come dice un mio saggio amico, la cultura è come il pene: se non sai dove metterlo è inutile.]
«L'ho fatto io, l'ha fatto tuo nonno e lo fai tu». E allora ci si trascina stancamente seguendo questo diktat, studiando materie che io posso anche far piacere, ma che non sono ciò che realmente si vorrebbe fare nella vita... perché si deve fare.

Ecco, lo confesso: a volte mi sorprendo a sperare che questa crisi duri. Venti, trent'anni. Che studiare diventi ancora più difficile e che, per reazione, i ragazzi della prossima generazione studino perché davvero lo vogliono. Che considerino lo studio come un mezzo di ribellione, di affrancamento dalla miseria culturale e sociale in cui saremo (siamo?) precipitati. Che la scuola, privata o pubblica che sia, torni a essere considerata un luogo in cui si formano giovani teste pensanti, e non semplicemente un becero diplomificio o un supermercato dove conseguire una maturità in un buon liceo da esibire come status symbol. Io sputerò sangue tutta la vita e non sarò mai nessuno, ma mi sta bene. Perché terrò botta, e sarò lì a vedere il giorno in cui uno dei miei allievi mostrerà che forse con la cultura non si mangia, ma si evita di essere mangiati. E continuerà a studiare, nonostante tutto.

mercoledì 17 aprile 2013

Bloghdad

Quando ho saputo dell'esistenza di EB avevo quindici anni. Portavo i tacchi alti sotto i jeans, magliette fucsia troppo scollate per una ragazza di quell'età («ma tanto non c'è nulla da vedere», mi giustificavo forte del mio fisico a manico di scopa), osavo colori di make-up che oggi non esiterei a definire imbarazzanti. Era agosto e faceva un caldo soffocante. Ero reduce dalla mia prima delusione amorosa e, come ogni quindicenne con la sindrome del cuore spezzato, andavo ripetendo che la vita era una merda e non mi sarei mai più innamorata.
In quella calda e banale estate del 2004, la faccia di EB si materializzò sul mio televisore. Non sapevo chi fosse, né che cosa diavolo ci facesse in Iraq. Bello che quando c'era stato da manifestare contro le sporche guerre in Afghanistan e in Iraq ero stata, con tutti i miei compagni, in prima fila. Ricordo che dicevo: «sarà un nuovo Vietnam», e non potevo neanche lontanamente immaginare quanto poco mi stessi allontanando dalla verità.
Fatto sta che verso la terza settimana di agosto scopro che da qualche parte in Iraq è stato rapito un signore che guarda la telecamera del video dei rapitori con un piglio da giornalista di guerra e che tiene un blog da Baghdad. Figuriamoci, io a quindici anni a malapena so cosa sia, un blog. Ma quella faccia, quella vicenda, mi colpisce. Bam, un pugno in piena pancia. E domande, tante domande. Perché prendersela con uno come lui, che di armi in mano non ne ha e che è assai più simile all'Ulisse dantesco in viaggio fino alla fine (... ma misi me per l'alto mare aperto) che all'Odisseo che escogita l'inganno del cavallo per uccidere uomini e radere al suolo una città. Le contraddizioni di un fuoco che si ha il coraggio di chiamare «amico» (Orwell, bontà di Dio, quanto avevi ragione). E un corpo che sparisce, per avere una degna sepoltura solo a distanza di anni.
Sono passati quasi nove anni dalla sua morte. Solo oggi ho avuto il coraggio di leggere il suo ultimo blog, Bloghdad, di cui ho trovato la trascrizione in pdf. Pian pianino tornerò indietro, in un viaggio da Timor Est alla Colombia, ma ho voluto cominciare dalla fine. Per provare a capire qualcosa di quell'uomo che non ho mai conosciuto, ma che mi ha lasciato, in qualche strano inspiegabile modo, le impronte digitali sul cuore.
Ho letto Bloghdad d'un fiato. Ho riso per le scene di ilarità dopo un attacco missilistico o per gli sprazzi di normalità che uno non si aspetta in un teatro di guerra, chissà poi perché (quando ho letto «chissà se c'è figa a Baghdad» per poco non mi sono ribaltata dalla sedia). Ho avuto i brividi, di tenerezza e di commozione, lasciandomi trasportare nel reparto grandi ustionati dell'ospedale della Croce Rossa Italiana. E poi la svolta, la decisione di trasportare medicine e aiuti a Najaf, assediata dagli statunitensi, mentre altri omini della CRI, lontani migliaia di chilometri, se ne lavano le mani. E alla fine il comunicato dell'imboscata, in uno stile così diverso, poiché scritto da altre mani ancora.
Io Enzo Baldoni non l'ho mai conosciuto, e m'incazzo, perché avrei voluto conoscerlo. In Bloghdad ha scritto che la vita ha il sopravvento sulla morte, ed è vero. Non sono però soltanto le buone azioni a rimanere, come si crede comunemente, ma anche le parole. Scrivere è la chiave per l'immortalità.

«Si è parlato molto di morte in questi giorni: della morte serena di Zio Carlo, filosofo e yogi, che forse sapeva la data del suo trapasso. Guardando il cielo stellato ho pensato che magari morirò anch'io in Mesopotamia, e che non me ne importa un baffo, tutto fa parte di un gigantesco divertente minestrone cosmico, e tanto vale affidarsi al vento, a questa brezza fresca da occidente e al tepore della Terra che mi riscalda il culo. L'indispensabile culo che, finora, mi ha sempre accompagnato».





... infin che 'l mar fu sovra noi richiuso.

domenica 14 aprile 2013

La fatidica domanda

... no, non è: «Vuoi sposarmi?».


A volte mi soffermo a pensare a quanto grande sia la quantità di domande inopportune che possono essere rivolte a una persona: credo sia pari soltanto al coefficiente-facciadibronzo necessario per formularle.

La migliore in assoluto, naturalmente, è: «come va?».
Senza esagerare, è un grande classico. A ogni occasione sociale, a ogni incontro più o meno fortuito, il Come Va è la tentazione cui quasi nessuno sa, o vuole, resistere. Se già in un periodo "normale" si situa ai limiti dell'indiscreto (sconfinando talvolta nel "non so cosa dire ma devo rompere il ghiaccio e sono passati troppi pochi secondi per parlare del tempo"), in questa fase storico-economica chiedere come va è da de-fi-cien-ti.
Punto numero uno: se mi conosci e mi sei vicino sai già come sto, non hai bisogno di chiedermelo. Se me lo chiedi, vuol dire che non sei mai stato abbastanza interessato alla mia vita da avvicinarti e non vedo perché tu debba interessartene adesso, solo per riempire un minuto di conversazione in cui non c'è nulla da dire.
Punto numero due: se mi chiedi come va, mi costringi a rispondere. La scelta va da «sono affari miei» a «vuoi davvero saperlo?». Senza contare che il Come Va non prevede mai come risposta: «male, grazie». Se non sei interessato alla mia vita, l'ultima cosa che vuoi è sentirti raccontare la mia personalissima Historia calamitatum mearum.
Punto numero tre: se mi chiedi come va, mi costringi a chiederti a mia volta come va, anche solo per cortesia. E se a me la tua risposta importa quanto a te importa la mia? Se non me ne può fregar di meno? Come la mettiamo?

Un sottotipo particolare del Come Va è il Come Va Giornalistico, cavallo di battaglia dei telegiornali. Scena: amenità a scelta tra cataclisma, terremoto, tsunami, disastro nucleare, incendio, strage del sabato sera, carneficina et similia. Giornalista domanda a un sopravvissuto o, in mancanza d'altro, a un amico/parente del caro estinto: «come va?». Idiota patentato, hanno scelto casa mia per le prove generali del Giudizio Universale, secondo te come può andare??

Un'altra bella è: «allora, ce l'hai il fidanzato?». Prerogativa di parenti e amici di famiglia.
Se la risposta è «no», segue sguardo di commiserazione. O, in alternativa, di sospetto (da leggere: «se non ne hai uno... non è che ne hai molti? Oppure ne hai una? O molte? O molti e molte? Aaaah peccatrice!!». E se anche fosse?).
Se la risposta è «sì»... no. Mai, mai rispondere di sì a una domanda del genere! Il discorso prende più o meno questo tenore:
«Allora, ce l'hai il fidanzato?».
«Eh... sì».
«Ah, che bello! Quando ce lo presenti?».
«Ma veramente io...».
«Dai, i cugini/gli zii/la nonna/il cane il gatto il pesce rosso/tutti i congiunti fino alla settima generazione saranno felicissimi di conoscerlo!».
[Per inciso: ecco perché non lo presento.]
Ma non finisce qui: la particolarità di questa domanda è che è soggetta a evoluzione. Una volta conosciuto il fidanzato, la domanda muta in: «allora, a quando le nozze?». Dopo le nozze (sempre che il malcapitato fidanzato non sia fuggito prima, innamorandosi perdutamente di un'orfana) diventa: «sì, adesso avrete un figlio o volete aspettare un po'?». Dopo il primo figlio: «non sarebbe ora di dare un fratellino o una sorellina a questa creatura tutta sola?». Sì, guarda, adesso mi metto a generare un numero spropositato di figli. Ma solo per dare a te, parente serpente, modo di chiedermi: «ragazzi, ma non volete proprio fermarvi?».

Poi c'è la Domanda Bastarda. Quella da non fare mai, e sottolineo mai, a un precario, e men che meno a un neolaureato. Ho il sospetto che alcuni conoscenti particolarmente sadici raggiungano l'orgasmo nel chiedere: «dimmi, hai trovato lavoro?».
Senti, mi sono laureata dieci giorni fa. So anch'io che prendere 110 e lode non vuol dire più niente, ma lasciami almeno il tempo di capire che cosa vuol dire «dignità di stampa» (un'altra cosa inutilissima, immagino). Come cantava il mio amato Samuele Bersani qualche anno fa: togli la ragione e lasciami sognare, lasciami sognare in pace. Tanto non è che fuori casa ho la fila di gente che mi rincorre per offrirmi un lavoro migliore di quello che faccio, quindi dieci giorni in più o in meno da pseudo-insegnante privata non fanno nessuna differenza. 
E poi scusa, ma ti pare? Avrei tappezzato la città di cartelloni, se avessi trovato qualcosa di un pochino più stabile. Avrei pagato da bere a tutti e chiamato i parenti. Anche quelli di secondo, terzo e quarto grado, crepi l'avarizia.
Una buona risposta da dare sarebbe: «sì, guarda, mi sono fatta assumere in Mondial Casa. Così posso finalmente provare a venderti una padellata di CAZZI TUOI».