Il lavoro dell'insegnante e quello del medico non sono così diversi, trovo. Il compito di entrambi è salvare vite: il medico dalla malattia e dalla morte, l'insegnante dall'ignoranza (fingendo di dimenticare che, come sta scritto in Qoelet, molto sapere, molto dolore). Sto imparando a amare l'ambiente delle lezioni private, poiché mi permette di stabilire un legame diretto con l'allievo. A tu per tu, si creano un rapporto e una confidenza che in una classe di venticinque, trenta persone è difficile trovare. Sei a contatto con emozioni e desideri, senza filtri che non siano il naturale pudore di un adolescente. A ricordarsi di come si era qualche anno prima e a saper leggere tra le righe, senza lo scudo del "gruppo" è più facile che la mente dell'allievo diventi quasi un libro aperto. Si comprende che cosa quella giovane mente si prefigge, come aiutarla a giungervi, e insegnante e allievo lavorano insieme, imparando ognuno dall'altro. Per quanto io altro non sia che una portatrice sana di sicuro precariato (Bersani dixit... il cantante, non il politico), a volte ho la sensazione di fare il lavoro più bello del mondo.
Per questo, quando mi sento dire da un'allieva in una situazione un po' problematica parole come «forse sarebbe meglio se fossi bocciata, almeno non mi passo un'estate di merda a studiare», avverto un senso di tristezza infinito. La sua resa come allieva è un mio fallimento come insegnante. E mi fa male, perché in tutta coscienza penso davvero di aver fatto tutto il possibile.
Forse ho lo stesso problema dei medici quando perdono qualche paziente: devono capire che non possono salvare tutti. Non sono dèi e ci sono cose che, molto semplicemente, sfuggono al loro controllo. Ma, fino a qualche giorno fa, io davvero avevo la presunzione di poter "salvare" tutti. Non perché io sia chissà chi, ma poiché ho sempre creduto fermamente che con la disciplina e la volontà si può arrivare a qualunque traguardo.
Se è così, quello che è mancato è la volontà. Io posso fare di tutto per far amare la materia a un'allieva, ma se le manca la voglia di impegnarsi e di farsi il mazzo non posso essere io a dargliela, né i genitori a comprargliela. Ma di chi è la colpa?
Sarà colpa mia? Non so dove posso aver sbagliato, ma non lo escludo a priori. Urge esame di coscienza.
Vogliamo dire che è colpa di un liceo classico torinese troppo elitario e pretenzioso per la preparazione che effettivamente dà, con una concezione malata di sé e dei suoi studenti, sempre teso a scremare tutto e tutti con pressioni psicologiche assurde per un adolescente, al punto da trasformarsi in un ospedale che cura i sani e respinge i malati? E diciamolo.
Vogliamo mettere in mezzo gli insegnanti ginnasiali, ipotizzare che alzino troppo l'asticella per il semplice gusto di operare un po' di sana selezione naturale? Nulla vieta di pensarlo.
Ma non è solo questo. Un po' ce l'ho anche con un certo tipo di genitori ricchi: i ricchi scemi, i ricchi ignoranti, quelli che a malapena sanno qual è la capitale d'Italia e si sono fatti i soldi nel periodo in cui bastava un qualsiasi pezzo di carta per lavorare. Gente che lavora milioni di ore al giorno, non bada ai figli e poi per mettersi l'anima a posto li vizia, se li compra. Quelli che quando la figlia porta a casa una sfilza di 4 le regalano l'iPhone 5.
E anche quelli che «tu fai il liceo classico perché io ho fatto il liceo classico, è un'ottima scuola e non si discute», senza considerare i desideri della figlia, le sue inclinazioni, le sue potenzialità e i suoi limiti, anche. Ricchi ignoranti anche loro, in un certo senso, ché non basta lo studio a rendere intelligenti.
[Come dice un mio saggio amico, la cultura è come il pene: se non sai dove metterlo è inutile.]
«L'ho fatto io, l'ha fatto tuo nonno e lo fai tu». E allora ci si trascina stancamente seguendo questo diktat, studiando materie che io posso anche far piacere, ma che non sono ciò che realmente si vorrebbe fare nella vita... perché si deve fare.
Ecco, lo confesso: a volte mi sorprendo a sperare che questa crisi duri. Venti, trent'anni. Che studiare diventi ancora più difficile e che, per reazione, i ragazzi della prossima generazione studino perché davvero lo vogliono. Che considerino lo studio come un mezzo di ribellione, di affrancamento dalla miseria culturale e sociale in cui saremo (siamo?) precipitati. Che la scuola, privata o pubblica che sia, torni a essere considerata un luogo in cui si formano giovani teste pensanti, e non semplicemente un becero diplomificio o un supermercato dove conseguire una maturità in un buon liceo da esibire come status symbol. Io sputerò sangue tutta la vita e non sarò mai nessuno, ma mi sta bene. Perché terrò botta, e sarò lì a vedere il giorno in cui uno dei miei allievi mostrerà che forse con la cultura non si mangia, ma si evita di essere mangiati. E continuerà a studiare, nonostante tutto.
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