domenica 30 settembre 2012

«Mamma, pare che sono santo!» (cit.)

Capita di scrivere una tesi su un autore che, non si sa bene come e perché, è stato fatto santo da quell'organizzazione che si definisce Santa, Romana, Cattolica e Apostolica. Il tizio in questione, in chi lo conosce, cagiona comportamenti opposti: gli studiosi sono troppo presi dalla vastità della sua produzione letteraria, esegetica e traduttiva, e anche dal suo caratteraccio, per ricordarsi che è un santo; il popolino devoto, di norma, non sa minimamente che quel testo che considera sacro è stato tradotto in latino dall'autore in questione... quella traduzione è stata in auge per oltre un millennio, ma sì, che cosa vogliamo che sia, bazzecole.
Al paese di mio padre, che per qualche imprecisato motivo ha questo popò di letterato come santo patrono, sono stata coinvolta in una conversazione di questo tenore.
Persona a caso: «Allora, Lucy, su che cosa stai facendo ricerca?».
Io: «Bah, sto studiando G.».
Lei: «G.? Intendi san G.??».
Io: «Sì, proprio lui».
Lei, visibilmente emozionata: «Ah, che bello! Però, non sapevo che avesse anche scritto qualcosa».
Io spero che il povero (san) G. non l'abbia mai saputo, altrimenti si sarà rivoltato nella tomba. Tanto più che, oltre a vegliare su quello sperduto paesello sulla collina aspromontana, secondo il cattolicesimo quel pazzo grafomane è il patrono degli studiosi, degli studenti, dei letterati e, nell'epoca di Internet, anche di noi blogger.
Si dà il caso che il giorno in cui si festeggia il suddetto santo sia oggi. Fin qui, nulla di strano. I problemi cominciano quando un certo docente, fissato con G. molto più di me, e che in teoria dovrà un giorno firmare la mia tesi, mi scrive su FB per farmi gli auguri di buon G-day. L'unica altra volta che costui mi ha mandato un messaggio, era per rinfacciarmi una mezza castroneria per la quale mi sfotte ancora oggi... chiaramente mi preoccupo!
Caro G., non ti ho mai pregato, ma forse è il caso che cominci a vegliare su di me. Ah, e già che ci siamo, buon complemorte numero 1592.

venerdì 28 settembre 2012

Gente perbene

Qualcuno deve spiegarmi per quale accidenti di motivo gli appartenenti alla sciagurata genia dei padroni di casa amino presentarsi come i salvatori della patria, quelli tanto buoni che ti sistemano l'appartamentino alla perfezione (e poco importa che in realtà sia talmente poco perfetto che dovrò ripassarci da capo), quelli che questa casa è un affarone e te l'affittiamo per tot quando potremmo chiedere il doppio (s'intende che, soprattutto di questi tempi, se l'affittassero al doppio la casa resterebbe sfitta nei secoli dei secoli), quando in realtà stanno solo cercando il modo migliore per fregare te o il fisco, possibilmente entrambi.
Se siamo in tre, il contratto lo fai a tre, non a due, altrimenti uno di noi non avrà alcuna tutela. Se l'affitti a tot, non dichiari la metà (ma come, quel tot poco fa non era una cifra irrisoria?) venendo a piangere da me che altrimenti non guadagni nulla perché Monti ti sta strangolando. Affari tuoi, non miei. Se affittare una casa non ti conviene hai solo da venderla e monetizzare. La sai la novità? Il fisco esiste per tutti, le tasse le pago anch'io, e le pago tutte! Povera idiota che sono, a momenti dichiaro anche quante mutande ho nel cassetto, povera cretina che non so fare la furba e fottere il sistema... è che ai furbi ho sempre preferito gli intelligenti, i lungimiranti, quelli che sanno guardare al di là del proprio naso e del loro misero orticello (maledetto Guicciardini e il suo particulare). Anche senza mettere in mezzo l'etica, ché per farlo bisognerebbe prima di tutto accertarsi di averne una, basterebbe pensare che è il momento più sbagliato della storia per ordire e brigare: ohibò, la Guardia di Finanza sta mettendo pressione su un mucchio di fuori sede perché denuncino i contratti irregolari o l'assenza di contratto, per chi sgarra scatta una bella multa di duemila euro. Ohibò, Coinqui GL fa parte dei fuori sede. Chissà quando arriverà la letterina della Finanza anche a lei? 
Ecco, prima di tirare a fregare il sistema senza avere i mezzi per farlo, io ci penserei due volte.

mercoledì 26 settembre 2012

Casino!!

Contratto di affitto in scadenza, trasloco in avvicinamento.
Valigie ammassate, scatoloni, borse, zaini.
Un'auto vecchissima che non può entrare nella ZetaTiElle.

Aiuto aiuto.

lunedì 24 settembre 2012

(postilla) La prof 'stica...

Di ritorno dall'esame di cui parlavo stamattina realizzo con terrore che, se ho passato un certo scritto di cui saprò l'esito solo a metà ottobre (ma certo, prof, faccia con comodo, ci metta pure un mese a correggere una pagina, tanto non mi devo laureare), quello di oggi sarà stato l'ultimo esame della mia vita. Mica pizza e fichi! Terrore? Sì, non so perché, forse sarà qualcosa di simile alla sindrome di Stoccolma.
Tra le tante tipologie umane e subumane che ho incontrato, però, ce n'è una alla quale non mi sono mai affezionata. Anzi: la odio con tutte le mie forze, la detesto con ogni fibra del mio essere, la schifo proprio (quest'ultima parte va letta con una spiccata cadenza napoletana, altrimenti non rende l'idea). Si tratta della professoressa, o del professor, 'STICAZZI.
Chi non ne ha mai avuta/o una/o?
La prof 'sticazzi sta all'insegnamento come Hannibal Lecter sta alla nouvelle cuisine, come il mostro di Firenze sta alla galanteria, come Nicole Minetti sta al buon gusto. Ella è l'esatto contrario di quello che una professoressa dovrebbe essere ed è l'incubo di ogni studente, universitario e non. Ordinaria da millemila anni, di norma si circonda di assistenti che presi singolarmente rivelano ancora qualche traccia di calore umano, ma che in sua presenza si tramutano in leccapiedi-e-altro-senza-speranza e si adeguano allo standard vigente: sensibilità di un termosifone e buona creanza sotto zero. Il grande segreto della prof 'sticazzi, che è alla base della sua sconfinata maleducazione e di tutte le sue mancanze, è un'atavica frustrazione per via del fatto che non esiste un corso di laurea nella sua materia, di cui diverrebbe istantaneamente il grande capo, ma soltanto uno sfigatissimo corso interfacoltà frequentato da circa due persone all'anno. La sua frustrazione si riversa sui malcapitati studenti, obbligati a dare esami inutilissimi nella sua materia, in un numero che va da due a +infinito, per potersi laureare.
[Precisazione necessaria: non è la materia in sé a essere inutile, tutt'altro. Inutile è la massa di nozioni che pretende di fare studiare, per giunta su un libriccino da ottanta euro, e guai a farsi beccare con una copia della biblioteca!]
Nulla esula dal suo programma. Al suo esame, un'ora di tempo per scrivere la Divina Commedia, possono capitare domande come queste:
«Il modello di Christaller nella localizzazione delle attività economiche sul territorio».
«La cartografazione cabreistica e l'etimologia di cabreo tra il franco-provenzale e l'Ordine di Malta».
«Le lezioni di Lagrange all'Istituto Topografico nel Regno di Sardegna».
'Sticazzi! Chiaramente non lo scrivi, ma lo pensi. E non provare a obiettare che mai, nella vita, neppure nella malaugurata ipotesi di finire a fare il/la prof di geografia, ti passerebbe per l'anticamera del cervello di tenere una lezione sull'antenato del catasto, sugli ingegneri militari di casa Savoia o su fantomatiche aree di mercato di forma esagonale! Non importa che tu sia un filologo classico, un archeologo, un dipendente dell'Archivio di Stato, un giornalista, un insegnante o chissà che altro: per la prof 'sticazzi devi essere onnisciente, conoscere a menadito il prezzo delle mappe cinquecentesche, essere ferratissimo in scienze dei terreni agricoli del Basso Monferrato (dimenticavo: la prof è tenacemente abbarbicata alle sue radici, tutto ciò che varca i confini regionali è il Male Assoluto e non merita di essere considerato) e, perché no, avere una discreta competenza anche in Scienza della Supercazzola con Scappellamento a Destra.
L'acme viene raggiunto quando si tratta di sfoderare inesistenti norme burocrat-accademiche alle quali, com'è ovvio, la prof 'sticazzi è ligia più di chiunque altro al mondo:
«Non è possibile ridare l'esame nella medesima sessione, anche se ci sono tre appelli bisogna aspettare la prossima!»
«Lo statino non si porta al momento della registrazione, bensì a quello dello scritto, e se non l'avete scordatevi pure di dare l'esame!».
«Se tu sei bella e bionda grida ooh - ooooh!».
A farne le spese sono, soprattutto, le povere matricoline inesperte. Sperdute nel tentacolare mondo universitario, non hanno ancora imparato a non prendere sul serio la prof 'sticazzi e si lasciano influenzare dal suo mefitico potere. Prima o poi, però, impariamo tutti, e tutti siamo accomunati dal desiderio di guardare negli occhi quell'essere immondo e vomitare sulla sua faccia tutto il male che ne pensiamo.
Una scena alla Notte prima degli esami, ecco.

Braccia rubate all'agricoltura

Ogni tanto mi ricordo di essere anche una sottospecie di universitaria (ma ancora per poco, ringraziando iddiolamadonnatuttiisanti), tolgo gli occhiali d'ordinanza da (ehm) insegnante privata e mi dirigo verso la facoltà con un orrendo zainetto nero che avrò pagato due euro una decina d'anni fa. Il mio dipartimento è frequentato da gente tanto simpatica, e soprattutto sincera, che preferirei due calci nel deretano e ventordici scudisciate anziché andarmici a rinchiudere, ma mi sono messa in testa di dare gli esami integrativi in vista dell'abilitazione all'insegnamento nelle scuole pubbliche, che di questo passo conseguirò nel duemilamai, prima di discutere la tesi specialistica invece che dopo, come fanno tutti gli studentelli medi, a disoccupazione inoltrata. Mi attribuisco da sola la palma di Pirla del Mese e mi stringo anche la mano, complimenti, brava, bis.
Tra un appello di linguistica italiana e uno di approfondimenti di linguistica, saltellando con leggiadria tra la cartografia, la storia moderna e la filologia italiana-ma-anche-un-po'-classica-se-no-mi-sento-triste, capitano anche momenti di vero divertimento e di autentica perplessità, come questa battuta. Scena: interno giorno, aula da 350 posti, ore 11 del mattino. Canuto supermegaordinario giacca-e-cravatta guarda giovane rastona al secondo anno, visibilmente agitata: «Signorina, ma non passi adesso, non importa... si calmi un po', che so, vada ai Murazzi a bere una birra e torni tra un'ora».
In questo istante, però, a prevalere è lo scoramento. Appello alle 9 del mattino, l'esimio professore arriva con una buona mezz'ora di ritardo, e già questo ti fa vagamente girare i cabbasisi: prof, insomma, un appello d'esame è come un primo appuntamento, tu sei un uomo e non puoi fare aspettare una signorina. Inizia, con tutta la flemma del mondo, a chiamare i candidati. Pensi: io devo dare solo due crediti integrativi, mi sono iscritta a Pasqua del 1992, mi farà passare per prima, no? No. Prima passano gli iscritti del corso L da sei crediti, poi quelli da dodici crediti, poi quelli del corso E, poi quelli degli anni precedenti, poi i due coccodrilli l'orangotango due piccoli serpenti l'aquila reale il gatto il topo l'elefante e anche i due leocorni... e dopo, forse, passi tu.
Torni a casa sconsolata, con la nebbia di Augusta Taurinorum che ti si appiccica addosso. Speri di poterti rilassare. Orrore: nella tua piccola dimora sembra essere passato un uragano. Realizzi che Coinqui C. se n'è andata senza nemmeno degnarsi di buttare l'immondizia, figuriamoci il resto.
Uccidetemi.

domenica 23 settembre 2012

L'uomo impossibile

Tutte ne abbiamo avuto (almeno) uno, e tutte abbiamo desiderato di renderlo possibile, anzi reale, anche soltanto una volta, anche a distanza di anni rispetto al primigenio scoppiare dell'ardore e del desiderio dell'estasi d'amòr.
Amore in senso lato, sia chiaro. Lo si può intendere anche in maniera prettamente fisica e il succo della storia è sempre lo stesso. Cambiando la natura degli addendi, ciò che non cambia è il pensiero che balena nella testa di una giovane donna, o anche meno giovane, di fronte al GF (che non sta per Grande Fratello bensì per Gran Fàigo, o Gran Figo che dir si voglia) in questione: «Cosa non darei...! Ma tanto non succederà mai».
C'è una tipologia di GF, in particolare, il cui incontro è destinato a lasciare seri strascichi sul sistema nervoso di un'esponente del gentil sesso: il bellone del liceo. Ah, che anni meravigliosi! Che palpiti, che batticuori, che rossori ogni volta che si vedeva il GF! Eh, non si può pretendere più di tanto: al liceo si è ancora delle cucciole, pensieri cretini inclusi (noi non eravamo bimbeminchia soltanto perché all'epoca, nel Paleolitico, la bimbominchitudine era ancora di là da venire), e come dice la mia saggia amica BB l'adolescenza è l'età della scemenza...
Ora, nei miei anni giovanili trascorsi a Città Mesopotamia, il mio liceo era popolato per un buon 85% da tenere fanciulle e bastarde tagliagole. Nonostante la desolante penuria di fauna maschile, però, o forse proprio per questo, il buon Dio delle Studentesse ci aveva fatto dono di più di un bel giovane con il quale rifarci gli occhi. C'era Luca B., capelli lunghi e occhi chiari, con l'aria da freakettone sempre un po' assonnato. Nicolò G., che noi chiamavamo Jesus, meraviglioso finché non apriva bocca: un viso angelico e la voce di uno che avesse appena ingoiato per intero una patata bollente, che delusione la prima volta che lo sentii parlare. Il professor P., non esattamente bello ma affascinante, con la sua ironia un po' dolente, e il professor C., molto bravo e talmente bello da farci amare la matematica. Andavo al laboratorio di fisica moderna che teneva al pomeriggio per riuscire a capire le lezioni di fisica classica della mia professoressa al mattino. Erano tutte cotte di lui, al punto che volta una donzella finse di svenire durante un'interrogazione per poter cadere tra le sue braccia (la mia amica Scilla, i cui occhi ancora s'illuminano se si parla di lui, quando lo venne a sapere se la prese terribilmente, lanciando improperi contro «quella ragazzina stupida», testè soprannominata La Svenevole, e in realtà, ho sempre sospettato, maledicendosi per non averci pensato prima).
E poi c'era Mister E. Rispetto ai capelluti esseri summenzionati, non avrebbe potuto essere più diverso: capelli cortissimi e moderatamente truzzetto. Ripensandoci, non è che fosse un divo di Hollywood, ma i suoi occhi da siculo trapiantato al nord, le sue labbra carnose e la sua espressione da bambino mi piacevano da matti. Quando io ero una scamorza di quarta ginnasio, lui era un aitante giovane di prima liceo (in realtà era più grande, ma il classico evidentemente doveva piacergli al punto da decidere di fermarcisi due anni in più): inevitabilmente doveva diventare il mio personalissimo GF. Pensavo che non mi vedesse neanche e risulta ovvio che non presi mai il coraggio a due mani, cosicché i successivi due anni trascorsero tra scambi di occhiate furtive e sguardi di fuoco. Poi per lui arrivarono gli esami di maturità e fu così che non lo vidi più.
Saltiamo a qualche anno dopo: il liceo è un ricordo che si appresta a divenire lontano, altri amori sono stati vissuti e il brutto anatroccolo quattordicenne si è trasformato in una ventunenne in procinto di scrivere la tesi triennale. La giovane donna in questione ha un account Facebook, così come il GF dei bei tempi andati... galeotto fu il social network e Zuckerberg che lo inventò, i due si ritrovano e cominciano a scriversi, per poi incontrarsi.
Con mia grande sorpresa, scopro che l'umanoide in questione è affascinato da me, e anche tanto. Ammettiamolo: il sogno della ragazzina che c'è in ognuna di noi è diventare la Gran Fàiga di quello che è stato il nostro GF. Dopotutto ne va del nostro orgoglio e del nostro amor proprio, dannazione. Ecco, se esistesse una provvidenza divina, a questo punto della storia dovrebbe pararmisi davanti Gandalf con una spada, che mi intimi con fare perentorio: «Tu non puoi passare!», oppure: «Fuggite sciocchi!», o altre cose di questo genere. Invece no. Lo rivedo, lo rivedo ancora, in breve mi ritrovo coinvolta in un tourbillon amoroso mica da ridere. Il fatto è che da un piedistallo si può solo cadere, e d'improvviso l'antico GF mi appare in tutti i suoi difetti: a parte il fatto che si è fatto crescere i capelli (anche lui?) in ritardo di un decennio e non mi sembra più tanto bello, il fanciullo ha superato il quarto di secolo di vita e ancora è alla triennale di Lettere Moderne (per inciso, il pezzo di carta non arriverà che due anni dopo... avrebbe fatto meglio a frequentare Scienze del Cazzeggio: a quest'ora avrebbe già una cattedra), ascolta ancora il genere di musica che ascoltavamo sette anni prima, non si riesce a intavolare con lui un discorso serio nemmeno se ci mette mano la Madonna. Fa all'incirca il giornalista sportivo (argh) che si occupa di calcio (doppio argh), per la precisione di squadrette locali che interesseranno sì e no allo 0,0001% del genere umano (triplo argh), e andrebbe anche bene, se solo non se la tirasse all'inverosimile. Dopo aver letto i suoi articoli ho pensato: tiratela meno, scrivi da cani, non sei Gianni Brera, bontà di Dio!
Last but not least, il fatto che fosse, da sempre, considerato un bel ragazzo non l'ha mai portato a dover faticare per conquistare una donna; c'era sempre una ragazzina adorante e disponibile. Quando abbiamo iniziato a vederci non ha fatto il minimo sforzo per conquistarmi, dando per scontato che ci sarei sempre stata e che avrei preso per oro colato qualunque banalità proferita dalla sua bocca e qualunque carezzina svogliata. 
Va da sé che, nel giro di poco tempo, sono migrata verso altri lidi. E il signorino è pure stato capace d'insultarmi! Oh, povero piccolo, povera creatura incompresa e non abituata a essere scaricata. Povero GF trasformato in un GP (Gran Pirla). Mi ha cancellata dagli amici di FB e non l'ho più visto né sentito.
Morale della favola: certe volte è meglio che i sogni restino nel cassetto a fare la muffa.

Un caffè


La scorsa primavera sono andata a Firenze. Uno di quei viaggi tra amiche, che non si sa bene come diventano viaggi con le amiche e con gli amici delle amiche... con il prevedibile risultato che tutti i programmi approntati con tanta cura sono andati a farsi benedire per colpa dei suddetti fanciulli, il gruppo-affiatato-tutti-insieme-appassionatamente si è scisso in varie correnti e correntine, più volte si è rischiato l'incidente diplomatico e/o l'omicidio tramite annegamento nell'Arno (ma tutto è bene quel che finisce bene: le amiche sono ancora tali e in compenso uno dei baldi giovini è stato scaricato per altri motivi, sopravvenuti nei mesi successivi).
Se si parla di Firenze, riesce quasi automatico pensare agli Uffizi, a Santa Croce, a Santo Spirito e alla Laurenziana. Non nego di essermi commossa davanti a un Caravaggio, che è e rimane il mio pittore preferito, di aver provato un brivido di ammirazione di fronte a Santa Croce, e ammetto che mi sono scese due lacrimucce quando ho realizzato di essere arrivata alla mostra sui codici medici alla Laurenziana due minuti dopo l'ultimo ingresso. I ricordi più vividi che ho di Firenze, però, sono legati ai sensi del gusto, dell'olfatto e dell'udito.
Una pasta «al sugo finto», che ancora devo capire perché diamine si chiami così. Buonissimo, inebriante, divino. Può un piatto di spaghetti mandare in visibilio? Evidentemente sì. Ho isolato i soliti aromi della cipolla, dell'aglio, della carota e del sedano, ma deve esserci anche qualcos'altro, poiché non sono mai riuscita a riprodurre esattamente quel sugo.
Una tagliata all'aceto balsamico che si scioglie in bocca. Mettersi a tavola tutti insieme, dopo vari momenti di tensione in cui ero arrivata a desiderare di prendere il primo treno per casa, dà un sapore particolare alle cose.
Due ore prima di tornare a Santa Maria Novella, dall'altra parte della città, un acquazzone. Ventaccio maledetto, ombrelli che si rompono (ombrellini dallo sbrindellamento facile, ovvio, pagati tre euro e che ne valevano la metà) e annesse imprecazioni in tutte le lingue del mondo, vive e morte. Un bar piccolo piccolo e le note di Susanna di Adriano Celentano, sparata a seimila decibel, che si diffondono nell'aria. Entriamo. Pareti dipinte di rosso, istoriate di scritte a gessetto in inglese, tedesco, cinese, spagnolo e Dio solo sa quali altri idiomi parlati da turisti passati di là e che hanno deciso di lasciare il loro segno. Un barista alto e magro, sui quarant'anni, con un cappello nero e tutta l'aria di uno che alle quattro del pomeriggio ha già bevuto più di un bicchiere di troppo. Finisce Susanna e parte Hasta siempre comandante nella versione dei Buena Vista Social Club. Cantiamo noi, cantano le ragazze americane sedute al tavolo a fianco, canta Carlo (così si chiama, il barista). Fa alzare uno di noi, lo porta dietro il bancone e gli fa preparare sette gin tonic: siamo in sei, uno è per lui che si unisce al brindisi. Offre la casa. Anche noi ci armiamo di gessetti e lasciamo un ricordo del nostro passaggio, subito prima di correre a prendere il Frecciarossa che ci riporterà in quel cantiere perenne che è Porta Nuova.
Proust aveva ragione a dire che l'odore e il sapore sono i ricordi più tenaci, destinati a restare quando tutto il resto sarà svanito; io ci aggiungerei, però, anche i suoni: le canzoni e l'allegria un po' folle di Carlo, e l'atmosfera del suo bar, che si chiama semplicemente, proprio come il titolo di questo post, Un Caffè.

venerdì 21 settembre 2012

Riflettendo

[questo post serve più a me stessa, come dichiarazione d'intenti e di buoni propositi, che agli altri, come manifesto programmatico]

Punto numero uno, non voglio scrivere uno di quei blog pesantoni. Ovviamente ogni tanto, tra un'inutilità e l'altra, salteranno fuori argomenti seri, ma spero di riuscire a mantenere sempre una certa leggerezza, da non confondere con la superficialità.

Punto numero due, questo è soprattutto un esperimento. Ho sempre amato leggere e scrivere, poi, per una serie di motivi, ho accantonato questa passione per concentrarmi (soffoco una risata) sulla ricerca. Chiaro è che non scriverò l'Ulysses di Joyce, ma voglio vedere se sono ancora in grado di mettere più di quattro parole in fila o se farei meglio a darmi all'ippica, a zappare la terra, a mollare tutto e diventare castratrice di agnelli in Australia meridionale, o eventualmente anche tutte e tre le cose insieme.

Punto numero tre... no, per ora basta così.

Once upon a time

C'era una volta, in un'austera città, abitata anticamente da Celti e Romani, una principessa. I suoi capelli risplendevano della luce del tramonto, nei suoi occhi si specchiavano i laghi alpini, la sua longilinea figura le conferiva un tocco di rara eleganza...

... ecco, la sottoscritta non è nulla di tutto questo. La città dei Celti e dei Romani, il cui nome tutti pensano derivi dal latino taurus, «toro», e invece viene dritto dritto dal celtico tauro, «montagna», continua a esistere, umidiccia e carica del particolare fascino di un'anziana che un tempo è stata una donna splendidamente bella. Di principesse, in giro, se ne vedono pochine; in compenso ci sono io, nata in una terra tra due fiumi (una sorta di Mesopotamia delle Alpi Marittime, se si vuole, con la Stura e il Gesso trasformati nel Tigri e l'Eufrate de noantri), trasferita ad Augusta Taurinorum prima per forza e poi per amore. Ogni riccio un capriccio, capelli neri e ribelli, ingentiliti soltanto da un riflesso di hennè qua e là. Se l'altezza, come dicono, è mezza bellezza, non mi resta che sperare di avere almeno l'altra metà. I miei occhi hanno il colore del carbone e non riflettono il cielo, ma lo guardano attentamente. Può capitare d'incrociarmi per strada: via la scarpetta di cristallo e parcheggiata la carrozza, saltello da un tram all'altro con un paio di Superga rosse un po' consumate, forse meno chic, ma sicuramente assai più comode. Lasciato il gran ballo a quella fighetta di Cenerentola, danzo in un mondo fatto di portici, parole, chicchi di caffè e granelli di polvere.