lunedì 25 febbraio 2013

#guardachetoccafàpeccampà

Il problema non è avere a che fare con gli allievi, ma coi genitori.
Mamma preoccupata che mi telefona alle 12:30 per chiedermi se posso andare a casa sua alle 15:30 invece che alle 15 (quando mi ero messa d'accordo autonomamente con la mia allieva già giovedì scorso) perché «sai, altrimenti mia figlia oggi mangia soltanto un panino».
Oh, povera stella.
Ora, a parte il fatto che quando andavo a scuola ero talmente stanca, e avevo già mangiato tante schifezze delle macchinette durante la mattinata, che a fine lezione più che uno spuntino non riuscivo a fare.
Ma insomma: non mi pare che per un panino sia mai morto di fame qualcuno. Io stessa stasera cenerò a chissà che ora con un tramezzino sfigato, sul 14, di ritorno dalla ridente Nichelino, e non è certo il caso di farne un affare di Stato. Chi per lavoro è costretto a pranzare sempre coi panini, allora, che cosa dovrebbe dire?
E che cosa dovrebbe dire chi nemmeno li ha, i soldi per un panino?

venerdì 22 febbraio 2013

Politicando (parte terza)


Ultimamente si fa un gran parlare di onestà.
«Che i prossimi eletti siano incensurati, non inquisiti, oppure tutti a casa!».
«Voto Tizio perché è onesto... no, il programma elettorale non l'ho capito bene, ma ha una faccia pulita, sembra una persona a posto».
Ma siamo sicuri che questo basti? Ho l'impressione che l'onestà non si misuri solo in termini di fedina penale. Non sta scritta nel casellario giudiziario.
Si può essere incensurati e gestire un'azienda che ufficialmente impiega collaboratori volontari, i cui compensi non risultano da nessuna parte.
Si può essere incensurati e "dimenticare" di stampare qualche scontrino ogni tanto.
Si può essere incensurati e offrire stages da 150 € al mese, nove ore al giorno, cinque giorni su sette, perché tanto per uno che ancora ha la forza di rifiutare (lo chiamano choosy, ma forse è colpa di quella brutta malattia che si chiama dignità) ce ne sono dieci più disperati.
Si può essere incensurati e ritenere cosa buona e giusta che i migranti muoiano nel tentativo di arrivare in Italia.

Politicando (parte seconda)


In un clima di rabbia e malessere viene spontaneo cercare un colpevole, qualcuno da additare come somma causa di tutti i mali in cui versa il Paese. Dagli all'untore!

Ascoltando molte persone mi sono fatta una certa idea. Da una parte, il male assoluto sembrano essere quelli della vecchia guardia, gli anziani, quelli che hanno avuto un mondo ricco in cui costruirsi un avvenire (in cui partivi magari da zero, ma avevi la possibilità di giungere molto in alto) e ce ne stanno consegnando uno in cui già è tanto se riusciamo a fare piani per l'anno prossimo. Quelli che con uno straccio di licenza media ottenevano molto di più di quanto potremo mai conseguire noi con una o due lauree in tasca. Di norma, quelli che lo pensano sono gli stessi che non ricordano un assioma basilare: l'Italia è una repubblica basata sui nonni. Quegli stessi vecchi che detestano, non fanno loro poi così schifo quando sganciano banconote.

D'altro canto, sul banco degli imputati ci sono i trentenni e i quarantenni. Quelli che erano giovani nei primi anni '90, insomma. Soprattutto tra i più giovani, sento dire: «dov'eravate quando c'era da fermare questo scempio?».
Prima di cercare una risposta, che verosimilmente non troverò, voglio citare una lettera che Massimo Gramellini ha ospitato nella sua rubrica Buongiorno qualche giorno fa:

«Ho mandato in giro migliaia di curriculum per qualsiasi – credimi, qualsiasi – posto. […] Non sopporto più che mia figlia mi chieda dove lavoro senza che io possa darle una risposta. Non posso pensare che a quarant'anni io sia troppo vecchio per lavorare e che i vent'anni di lavoro che ho alle spalle non siano serviti a nulla. Non posso pensare che tutt'a un tratto io non sia più in grado di svolgere un mestiere dignitoso. Questo è il semplice sfogo – scritto male, ma col cuore pieno di lacrime – di un padre di famiglia che crede ancora nei valori di onestà e dignità nel lavoro».

C'è una scollatura, tra i quarantenni annebbiati da vent'anni di sub-cultura e quelli estromessi a forza dal mercato del lavoro, troppo vecchi per rientrarvi e troppo giovani per andare in pensione? I primi fanno rabbia, i secondi tristezza. Le due cose sono legate tra loro? Non lo so, sono troppo giovane per dirlo. Non è la prima volta che esercito il diritto di voto, ma per la prima volta mi trovo a farlo con la dovuta maturità, domandandomi che cosa è stato sbagliato e da dove la mia generazione dovrà cominciare a raccogliere i pezzi.

Ho parlato a molte persone nella fascia d'età compresa tra i trenta e i quarant'anni, per cercare di capire direttamente da loro che cosa ne pensano.
Grosso modo, l'opinione prevalente è questa: «è colpa dei nostri coetanei rincoglioniti che andavano alle feste, si compravano le scarpe della Nike e altri status symbol per mimetizzarsi e pensavano a fare i fighi invece di venire ai dibattiti, alle manifestazioni, e mai una volta che votassero per i rappresentanti sindacali o dell'università... quando c'era da cambiare le cose, siamo stati lasciati soli». Sempre colpa di altri. Basta cambiare i tempi verbali, sostituire alle Nike le Converse e l'iPhone, e troviamo esattamente quello che dicono i miei coetanei impegnati oggi nelle sezioni di partito.
I giovani che si conformano alla massa sono tanti, indubbiamente. Altrettanti quelli che, con rispetto parlando, se ne strafottono. Ma ho l'impressione che il problema, così, sia affrontato in modo semplicistico. Anch'io (nel mio piccolo, e qualche anno dopo i quarantenni di oggi) sono andata alle manifestazioni, ho votato rappresentanti d'istituto e di facoltà, ho avuto amici nelle sezioni di partito e ho frequentato, sia pure da esterna, quell'ambiente. Le persone che lo popolano sono state lasciate progressivamente sempre più sole. Una parte della spiegazione di questo è il conclamato stato catatonico dell'italiota medio che si compra gli accessori alla moda e si crede un gran figo, ma in fin dei conti non capisce un belin. Ma c'è un'altra spiegazione, su cui di solito si glissa elegantemente, forse perché è troppo doloroso ammetterla, o forse perché non se ne è coscienti.
Il fatto è che ai giovincelli impegnati fin da quando erano all'asilo... star soli piace. Ci si sente parte di qualcosa di elitario, ci si sente migliori. Un conformismo anche quello, se si vuole. Ci si sbatte, si ragiona, si discute, poi si va a farsi una birra e una sigaretta al pub alternativo e si dicono quattro banalità contro il sistema, contro B., contro il Papa, contro i coetanei beceri e inferiori (quest'ultimo aggettivo non si dice, ma lo si pensa). Questi giovani di belle speranze fanno gruppo a sé, snobbando senza pietà un sacco di persone intelligenti, piene di buona volontà, ma che compiono l'imperdonabile errore di voler restare un po' esterni rispetto alla logica delle giovanili di partito. Esistono persone di serie A e persone di serie B. Diventa un sistema chiuso, arrivano addirittura a fidanzarsi tra di loro... salvo poi lamentarsi di essere in pochi. Ogni tanto, però, anche loro si svegliano e si ricordano di te: segnatamente, quando devi fare numero a qualche manifestazione in cui è opportuno non fare la figura dei quattro gatti.
Sfido chiunque a dirmi che sto esagerando. Ho vissuto questa realtà ovunque io sia stata, in città e in provincia, a nord e a sud dello Stivale, e la mia esperienza è tristemente simile a quelle di molte persone diverse per età, condizione sociale, provenienza geografica, appartenenza politica. E sbaglia chi pretende di liquidarle come le classiche istanze di chi non si impegna e cerca di giustificarsi. Esistono persone, e mi ci metto in mezzo, che non vanno alle feste a sfondarsi di alcol e pasticche, non hanno l'iPhone per scelta e non indossano scarpe alla moda. Leggono, studiano e riflettono. Altro che chiacchiere.
In estrema sintesi, i vittimismi in stile «dov'erano i giovani italiani mentre io, Tizio e Caio facevamo il presidio» hanno senso fino a un certo punto. Oltre, si deve ammettere: «una certa percentuale di gente l'abbiamo fatta allontanare noi». Se snobbi, giudichi, isoli, stigmatizzi in nome di non si sa bene quale superiorità e ti ricordi degli altri soltanto quando si deve fare numero, è ovvio che resterai da solo.

La cosa grave è che questo discorso, ai giovani impegnati di oggi e a quelli di ieri, non entra proprio in testa. Non riescono ad accettarlo. Ed è un peccato, perché basterebbe poco a capire che il mondo non è o bianco o nero. Sarebbe un primo passo per provare a cambiare qualcosa.

Politicando (parte prima)


In questi ultimi giorni di campagna elettorale, mai scelta mi è sembrata più azzeccata che portare il televisore in cantina. Non che abbia scelto di non interessarmi di politica, tutt'altro; ma preferisco passare per altri canali, almeno in teoria meno "urlati": giornali, radio, internet, o anche semplicemente i discorsi della gente per le strade e nei tram. Mi sembra che la televisione imponga troppi filtri, che distorca troppo colori e prospettive. E non è un fatto di snobismo radical-chic, ma di volontà di cercare altri punti di vista.
Se c'è una cosa che non mi piace, però, a ogni livello, è l'estrema violenza che riscontro. Sono giovane, va bene, ma non mi pare di aver mai vissuto una campagna elettorale dai toni così accesi. Più ancora che tra i politici, nell'elettorato.
A rigor di logica, a che cosa dovrebbe servire tutto questo? Se non condividi le idee di un certo schieramento e del suo leader, non lo voti. Fine. Invece no: ovunque assisto all'invettiva, all'offesa, allo scontro. Non siamo soltanto arrabbiati, come sarebbe pur giusto che fossimo, ma proprio incattiviti. Gli uni contro gli altri: voti Tizio? Allora non meriti di avere più nulla a che fare con me. Leggi il tal giornale? Sei una persona di merda. Siamo passati dall'essere partigiani a tifosi, o – per meglio dire – ultrà. Tutti contro tutti, in una squallida guerra tra poveri: non ci facciamo una gran figura. Dimenticando un particolare fondamentale, eppure semplicissimo: in questo periodo buio siamo fratelli, non nemici. A parte pochi privilegiati, siamo stati tutti colpiti, chi più chi meno. E ognuno di noi, coi propri mezzi, cerca come può di risollevare la situazione, anche votando per chi gli sembra meglio, o meno peggio. Le appartenenze politiche e le scelte elettorali degli altri possono non essere condivisibili, ma meritano rispetto, non fosse altro che per l'inquietudine e la disperazione che tradiscono. Tutti (o almeno molti) stiamo male: quando una persona sta male le tendi una mano, cerchi di comprendere da che cosa è portato il suo malessere e se puoi alleviarlo in qualche modo, non la disprezzi.
È così difficile da capire?

mercoledì 20 febbraio 2013

Ciò che ricorderò di questo Festival

«...pensa che bello sarebbe vivere in un paese dove tutti i diritti fossero riconosciuti. Ma non solo i diritti dei soldi. Quelli dell'anima. Quelli che mi dicono che posso vegliare la persona che ho amato per anni in un letto d'ospedale senza nessuno che mi cacci via perché non siamo parenti. E poi vorremmo un San Valentino dove nessun uomo per farci i complimenti dicesse che siamo donne con le palle. Dirci che siamo donne con le palle non è un complimento. Non le vogliamo. Abbiamo già le tette. Tra l’altro sono due e sferiche anche quelle. Vogliamo solo rispetto.
In Italia in media ogni due o tre giorni un uomo uccide una donna, compagna, figlia, amante, sorella, ex.
Magari in famiglia. Perché non è che la famiglia sia sempre, per forza, quel luogo magico in cui tutto è amore.
La uccide perché la considera una sua proprietà. Perché non concepisce che una donna appartenga a sé stessa, sia libera di vivere come vuole lei e persino di innamorarsi di un altro... e noi che siamo ingenue spesso scambiamo tutto per amore, ma l'amore con la violenza e le botte non c'entrano un tubo. L'amore, con gli schiaffi e i pugni, c'entra come la libertà con la prigione. Noi a Torino, che risentiamo della nobiltà reale, diciamo che è come passare dal risotto alla merda.
Un uomo che ci mena non ci ama. Mettiamocelo in testa. Salviamolo nell'hard disk. Vogliamo credere che ci ami? Bene. Allora ci ama MALE. Non è questo l'amore. Un uomo che ci picchia è uno stronzo. Sempre. E dobbiamo capirlo subito. Al primo schiaffo. Perché tanto arriverà anche il secondo, e poi un terzo, e un quarto. L'amore rende felici e riempie il cuore, non rompe le costole, non lascia lividi sulla faccia.
Pensiamo mica di avere sette vite come i gatti? No. Ne abbiamo una sola. Non buttiamola via».

Luciana Littizzetto

lunedì 4 febbraio 2013

Le comiche renali


Notte e mattinata coi simpatici omini verdi del pronto soccorso dell'ospedale Maria Vittoria, con corredo di strafattoni, vecchietti scatarranti e bambini scampati a un incendio: ce l'ho.

Guardare con odio la gente sui mezzi che non ti cede il posto nemmeno se ti vede piegata in due dal male: ce l'ho.

Trovare una svampita che ti colpisce in pieno con la valigia perché «non ti aveva vista»: ce l'ho. Notoriamente il mio cappotto bianco è mimetico.

Tossicodipendenza da Toradol e infusi strani (malva, erica, equiseto e uva ursina: alè!): ce l'ho.

Pazienza: manca.