mercoledì 31 ottobre 2012

Choosy: postilla


Norman aveva ventisette anni quando, nel 2010, si buttò dal tetto della facoltà di Lettere dell'università di Palermo. Era un dottorando e per mantenersi faceva il bagnino a venti euro al giorno. Voi mandereste a cuor leggero i vostri figli a lavorare per quella cifra?
Il padre di Norman, oggi, presenta un esposto contro il ministro Fornero che con le proprie esternazioni, sostiene, «offende un'intera generazione e uccide nuovamente mio figlio». Gesto nobile. Ma ditemi, genitori e adulti in generale: è proprio necessario buttarsi da un tetto per ottenere il vostro appoggio? Quanti Norman devono esserci, ancora, prima che i vostri figli abbiano la sensazione e la consapevolezza di non essere stati lasciati soli a combattere contro un mostro?
Al posto di Norman poteva esserci uno qualsiasi di noi. Agite di conseguenza. 

martedì 23 ottobre 2012

Choosy a chi?

Tra una minchiata e l'altra, non posso più rimandare un momento-serietà.
Mi unisco anch'io al coro di chi il ministro Fornero ha apostrofato come «choosy», americanismo attestato dalla seconda metà dell'Ottocento, che si può tradurre all'incirca come «schizzinoso»; Dictionary.com specifica: «hard to please, particular; fastidious, especially in making a selection». Il ministro, in poche parole, ha detto: ragazzi, nella scelta del lavoro non dovete essere choosy. Una volta si sarebbe detto «avere la puzza sotto il naso», «fare i preziosi» o cose del genere.
Ora, va bene tutto, va bene il rispetto che si deve portare alle persone anziane (così, almeno, ci hanno insegnato i nostri genitori), ma qui si sta un filino esagerando. A furia di bofonchiare, negli anni '80 e '90, che c'erano «lavori che i giovani italiani non vogliono più fare», si sono convinti che la stessa cosa valesse negli anni Zero e valga negli anni Dieci. Una parte di me vorrebbe sperare che il ministro non abbia preteso di fare un discorso generale, bensì relativo a una minoranza di fanciullini viziati di cui non si può, né si vuole, negare l'esistenza; e la signora ha provato a correggere il tiro in tal senso, dicendo «i giovani italiani oggi sono disposti a prendere qualunque lavoro, tanto è vero che sono in condizioni di precarietà... non sono nelle condizioni di essere schizzinosi». Sarà... ma dopo anni in cui chi avrebbe dovuto rappresentarci tirava il sasso e nascondeva la mano, se ne usciva con battute sconcertanti e poi si trincerava dietro un «sono stato frainteso», una persona che non ha neppure l'alibi dell'elezione e della rappresentatività può permettersi ancor meno un errore del genere.
Choosy, dicevamo. Probabilmente è solo che il ministro ha a che fare con ambienti privilegiati, con figli-dei-figli e amici-degli-amici che possono permettersi una certa selettività. Forse è soltanto slegata dal Paese reale, un po' come nella vecchia battuta s'ils n'ont plus de pain, qu'ils mangent de la brioche. Nel mio piccolo, avrò allora la presunzione di cercare di aiutarla a capire qualcosa di più, di questo Paese e dei suoi sventurati abitanti.

C'è la mia amica C., laureanda in Medievistica: ha il sogno di fare la scrittrice e ha già vinto vari concorsi e premi letterari, ma non disdegnerebbe neppure d'insegnare; nel frattempo, per non pesare su mamma e papà, lavora in un pub dalle sei di sera alle quattro del mattino, venti notti al mese, per cinque euro all'ora. Sarà choosy?

C'è il mio amico L., che studia Informatica: ha fatto mille lavori, dal rappresentante porta a porta al tuttofare in una galleria d'arte; adesso, per non rinunciare al sogno di andare a vivere con la sua donna, passa le sue mattinate in un call center per poche centinaia di euro al mese. Anche lui, è choosy?

Ci sono io, Lucy, specializzanda in Filologia Classica col massimo dei voti. La mia università, per i miei genitori, è stata a costo zero. Mi mantengo da sola da quando avevo diciotto anni, ho preso tutte le borse di studio per merito possibili e immaginabili, ho fatto la babysitter, ho insegnato inglese e francese per due lire. L'estate scorsa avevo trovato uno stage di tre mesi in una filiale Ina Assitalia: per 45 ore alla settimana mi hanno proposto 100 euro mensili. Cento. Non mi ci sarei pagata neanche i trasporti. E scusate tanto, ma allora continuo a dare lezioni private di greco, latino, letteratura, lingue straniere, storia, chimica e fisica: per quattro soldi, certo, ché se anche abbassi le tariffe all'osso c'è sempre qualcuno più disperato di te che chiede ancora meno (e per una questione di equità, altrimenti in tempi di crisi un affiancamento all'insegnamento scolastico se lo possono permettere solo i ricchi), ma almeno con quei quattro soldi riesco a pagarmi un posto in una camera doppia e a vivere senza chiedere nulla ai miei. Il mio sogno è aprire una scuola, di questo passo non lo realizzerò nemmeno tra tre vite.

Il posto fisso è monotono? Se è per questo, anche il contratto a tempo determinato sta diventando pura fantascienza. Assumere costa troppo, dicono. Ferie, malattie, permessi, riposi? Che cosa sono? Qui vige un molto più pratico «chi non lavora, non mangia». Per ora va così. Si sopravvive. Certo è, però, che soldi da parte non ce ne mettiamo. Chissà come faremo quando avremo l'ardire, l'incoscienza e l'egoismo di volerci creare una famiglia tutta nostra. Non lo faremo, semplice, oppure ce ne andremo all'estero beccandoci gli insulti di chi ci darà degli ingrati verso la madrepatria (o terra matrigna?) e tenendoci il senso di colpa per aver abbandonato il nostro Paese.
Per questi motivi, le parole del ministro danno la sgradevole impressione di una battuta infelice nella migliore delle ipotesi, di un'umiliante beffa nella peggiore. Quando ho letto le sue esternazioni, il mio primo pensiero è stato in dialetto romanesco: non c'è lingua al mondo che dia più soddisfazione nell'esprimere il proprio sdegno, la propria ira, il proprio disappunto. E allora lasciatemelo dire: ah sora Fornè, choosy ce sarai te e tutta la palazzina tua.

domenica 21 ottobre 2012

Frammenti di un discorso amoroso-multiculturale

Parlando con amici provenienti da vari Paesi del mondo e stabilitisi in questo benedetto, assurdo Bel Paese, mi sono resa conto che alcuni fanno fatica a capire fino in fondo le parole delle loro ragazze. Non che sia un problema di comprensione dell'italiano, tutt'altro; il più delle volte, il problema è il non detto, il dato a intendere, il lasciato capire.
In estrema sintesi: ciò di cui non ci rendiamo conto è che l'italiano è, molto più di tante altre, una lingua ambigua; né potrebbe essere altrimenti, visto che il susseguirsi di tante potenze sul nostro territorio nazionale ha comportato la creazione di un lessico multiforme, versatile, che potesse velocemente adattarsi e rimanere valido a ogni cambio di dominatore. Francia o Spagna purché se magna, si diceva una volta (e Mameli notava, in una delle strofe dell'inno che nessuno canta mai: «noi siamo da secoli calpesti e derisi perché non siam popolo, perché siam divisi»). Il che non vuol dire che gli italiani, o in questo caso le italiane, siano necessariamente persone ambigue; ma, piuttosto, che ambigua è la lingua che storicamente si è formata e con cui ci ritroviamo a comunicare. Ciò che non dicono le parole va cercato nel tono, nella postura, nello sguardo... o, peggio ancora, nel contesto.
[Deriverà forse da questo la perversione dei prof di latino e greco per cui ogni parola ha 10580 possibili significati e quello giusto «dipende dal contesto» sempre e comunque?]
Poi certo, sta scritto «il vostro parlare sia sì sì, no no, il più è del diavolo», e infatti quando una donna dice sì vuol dire sì e quando dice no vuol dire no, e chi sostiene il contrario peste lo colga; il guaio è che oltre a sì e no ci sono molte altre espressioni... servirebbe un Dizionario della Donna Italica.

Allora, mettiamo in chiaro un paio di cose:
Sì = sì
No = no
[e fin qui tutto bene]
Forse = no
Mi dispiace = ti dispiacerà
Hai ragione tu = come no, ti piacerebbe
Fai come vuoi = la decisione dovrebbe essere ovvia
Devo pensarci = ho già deciso ma sto prendendo tempo
Sono ingrassata? = NO!
Come mi sta questo vestito? = dimmi che sono bella!
No, caro, la tua sveglia non mi dà fastidio = se la sento suonare ancora una volta te la butto, quella ferraglia
Certo che mi va bene di uscire con te e tuo cugino/il tuo amico/etc = ma quel rompiscatole, farsi una vita? No?
Non c'è fretta di conoscere i miei = ti sto solo dando tempo per venire a casa dei miei di tua volontà, non costringermi a invitarli da noi
Non ho fretta di conoscere i tuoi = sto aspettando che sia tu a chiedermelo
Carina quella, chi è? = chi accidenti è quella donna di facili costumi, come ha osato salutarti, che cosa vuole dalla tua vita e soprattutto non è una tua ex vero?
Certo, amore, andiamo all'Outlet del Kasalingo domenica pomeriggio = passare la domenica in negozi per la casa è tristissimo e va contro i miei principi... e porca miseria, l'unico casalingo disperato in tutto il Sistema Solare dovevo beccarlo io?
Esci pure coi tuoi amici stasera = sarebbe opportuno che tu restassi qui a ottemperare ai tuoi doveri di concubino, ma i tuoi amici mi stanno fissando con fare inquisitorio e non posso esprimermi con la dovuta franchezza.

E mi parli di te (... musica, maestro!)

Anche se nessuno dei miei venticinque lettori (espressione manzoniana, ma ho il sospetto che su questo blog siano ancora meno) ne sentiva la mancanza, ho deciso d'inaugurare una rubrica: il momento musicale. Quando scoverò qualche perla, di autori famosi o di artisti sconosciuti ai più, le dedicherò un post. Se la canzone dovesse piacere a qualcuno, avrò compiuto la mia buona azione quotidiana; e se invece non interessasse? E chi se ne frega, scrivo comunque, tanto qui comando io. =)

Ho appena scoperto un brano molto bello. Arrivo un po' in ritardo, per la verità: una breve ricerchina internettara mi fa sapere che è in rotazione radiofonica dallo scorso 27 aprile... diamine, possibile che non l'abbia mai beccato?
Tenendo per me i miei moti di sconforto, la canzone si chiama E mi parli di te; è il frutto di una collaborazione tra Marina Rei, una delle mie artiste preferite, e Pierpaolo Capovilla, cantante del Teatro degli Orrori, di cui la stessa Rei ha dichiarato: «Grazie alla poetica delle sue parole ha donato al brano un carattere narrativo profondo, che svela le ipocrisie quotidiane del "maschilismo narcisistico", che fin troppo spesso domina quel particolarissimo rapporto sociale che chiamiamo amore».

Prima o poi, ci si passa tutte. Ci s'innamora dell'uomo tanto affascinante, o tanto autoreferenziale, da dipendere totalmente dall'ammirazione altrui. L'uomo che si mette al centro del mondo e del rapporto di coppia, soprattutto se ha qualche anno più di noi e pensa di aver vissuto più esperienze, di avere più cose da raccontare. Lui parla, parla, parla. Sempre di sé. Anche un «come stai» di facciata è chiedere troppo. L'altra persona esiste solo nella misura in cui è un satellite che gli gira intorno.

E va bene, lo ammetto, forse c'è uno scrupolo di autobiografismo nel mio amare questa canzone. Chi volesse ascoltarla, la trova qui.


E mi parli di te
degli anni che passano e non ritornano mai
mi racconti le tue spacconate e le piccole glorie
mi sembri Dylan Thomas, una vecchia rockstar
sorridente, infelice
che non dice mai
mai niente, mai niente
della sua solitudine
te la leggo negli occhi
gli stessi occhi che a volte piangono
non sanno neanche perché
e si vedono anche le ferite dell’amore
e la voglia di sparire e di non tornare più


E le donne che ti guardano

e ti vorrebbero
si vedono
le bugie, così tante bugie
e mi parli di te
degli anni che passano e non ritornano mai
ma non dici mai
mai niente, mai niente
della tua solitudine
te la leggo negli occhi
gli stessi occhi che a volte piangono
e non sai neanche perché
e si vedono anche le ferite dell’amore
e la malinconia
di una vita vissuta senza malinconie
tanto per viverla
e la voglia di sparire
e di non tornare più


Il tuo amore che ti vuole bene

e che ancora crede in te, crede in te
e mi parli di te
mi parli sempre soltanto e solamente di te
ti sei mai chiesto perché
te lo dico in confidenza
ti sei mai chiesto perché
io non ti amo più?
Te lo dico in confidenza
io non ti amo più.

lunedì 15 ottobre 2012

Il paradosso dell'aula

Mi sono presa un po' di tempo per riflettere su un articolo uscito ieri sul sito del giornale di Augusta Taurinorum. L'argomento era Palazzo Gnu, l'ecomostro costruito già con muschi e licheni incorporati, a breve distanza dal Po, per ospitare batteri, virus, vibrioni del colera e, se resta spazio, studenti delle facoltà umanistiche.
Eh già, lo spazio. Pare facile. Gestione ottimale delle risorse, questa sconosciuta. Che cos'è, si mangia? Il ritratto tracciato dalla giornalista è impietoso (per chi fosse interessato, dare un'occhiata qui), ma veritiero: stanzette adatte a contenere cinquanta studenti riempite all'inverosimile, fino a contarne ventordicimila; aule da quattrocento posti occupate sì e no da venticinque persone. Si potrà dire: che senso ha confinare materie destinate a tutti i corsi di laurea in aulette striminzite, con la gente costretta a sedersi per terra o sulle scale, con buona pace della legge seiduesei, quando aule da mille milioni di posti sono destinate a filologia biblica, letteratura swahili o altri corsi con molto meno pubblico?
[NB: ho nominato materie a caso, io stessa sono stata un'assidua frequentatrice di corsi «di nicchia».]
La risposta, piuttosto piccata, è data da un appartenente alla genia dei supermegaordinari; è talmente geniale che ho scelto di soffermarmi sulla questione delle aule-pollaio, anche se molti altri problemi allietano la vita di Palazzo Gnu (sito inutilizzabile e conseguente impossibilità di iscriversi agli esami, bagni spesso inagibili, pioggia che percola dai soffitti a ogni cambio di stagione, e altre amenità). Udite udite: «Non è possibile fare scambi: le aule sono occupate. E anche se gli studenti di un altro corso sono pochi, non sarebbe fattibile: il relativo docente valuterebbe la proposta come una diminutio del suo onore». Ma non finisce qui. Il gentile professore ci fa omaggio di una reminiscenza dal passato: «I baroni, quelli veri, anche se avevano quattro studenti non ritenevano dignitoso fare lezione se non nelle aule più grandi».
Ecco, io mi soffermerei su quell'espressione, «quelli veri». Come a dire: guardate che questo è niente, quello era un comportamento da baroni, il nostro no. Peccato però che l'atteggiamento descritto sia all'incirca il medesimo. Torniamo all'inizio: cosachecosa?? Una diminutio? Dell'onore del docente? Ora, se proprio volessi fare la fiscale, potrei menarla con il fatto che un Cicerone, un Livio, un Cesare, un Tacito, uno Svetonio non avrebbero mai impiegato il termine diminutio (che non si trova prima di Igino e della Vulgata), ma casomai deminutio, e anche a non essere un latinista un ordinario afferente alla facoltà di Lettere e Filosofia non può permettersi di non saperlo; ma il punto non è questo. Costui ci viene a dire che non è possibile gestire in maniera sensata gli spazi di Palazzo Gnu perché alcuni docenti se ne strafottono degli studenti (e della logica) e ragionano in base all'equazione «aula grande = grande importanza». Un po' come a dire: ti danno il corso in aula 9, cinquanta posti, sei uno sfigato; aula 36, centosettanta posti, sei un figo; aula 1, quattrocento posti, sei Dio sceso in terra.
Fermo restando che, per fortuna, non tutti ragionano in questo modo, mi verrebbe da commentare una cosina: signori miei, la smettiamo di giocare a chi ce l'ha più lungo? Suvvia, la prima media è finita da un pezzo, siete degli ometti ormai.

sabato 13 ottobre 2012

Essere donna: regole


1. Il correttore è il tuo migliore amico.
2. La prova costume ti provoca tensione? La prova elastico dell'autoreggente è peggio.
3. Una settimana al mese hai il sacrosanto diritto di essere isterica.
4. In tempi lavorativi bui e difficili come i nostri, l'assunzione di contraccettivi diventa uno strumento sindacale.
5. I leggings non sono pantaloni, a meno che il continuum spazio-temporale non si sia rotto e questo non sia il 1989.
6. Tutti i «ti amo» del mondo non faranno mai un «ti trovo dimagrita».

domenica 7 ottobre 2012

Sono solo parole

Quando viaggio in treno, di solito, ne approfitto per portarmi avanti con la tesi. Scribacchio qualcosa, oppure leggo qualche libro o articolo che mi può servire, e ogni tanto do un'occhiata fuori e mi godo il panorama. Magari ascoltando qualche canzone rilassante, come questa. Questo pomeriggio, il libro in questione era un tomazzo da circa mezzo migliaio di pagine, per la precisione il secondo di una serie di soli dodici volumi. Se non altro è in francese, poteva andarmi peggio: l'autore avrebbe potuto scrivere, che so, in tedesco, polacco, ostrogoto, babilonese, lineare B. Il titolo, in italiano, suonerebbe più o meno Storia letteraria del movimento monastico nell'antichità. 
Appare chiaro che per leggere un libro del genere di domenica pomeriggio (cosa che andrebbe vietata dalla Convenzione di Ginevra) servono una concentrazione sovrumana e uno sforzo di volontà non indifferente, già in condizioni ottimali... figuriamoci su un Minuetto di pochi vagoni, carico di millemila persone, con l'aria condizionata al massimo fuori stagione, che ovviamente si ferma per svariati minuti e per nessun motivo nel Paese delle Coincidenze Perdute. Orbene: salgo a Città Mesopotamia, lotto per un posto, rispondo alle occhiate truci delle ragazzine chic con borsa Luivittòn d'ordinanza rimaste in piedi con uno sguardo di sufficienza del tipo «tzè, gioventù bruciata» e gonfio la pancia (l'effetto incinta-di-tre-mesi funziona quasi sempre), apro il mio bravo librone e mi metto a studiare le ultime novanta pagine.

E invece NO.

No, perché seduta di fronte a me c'è lei, l'Orrida, la Terribile, l'incubo di tutti i viaggiatori, il mostro di Loch Ness dei lettori ferroviari: l'anziana logorroica. Triste chi l'incontra! Presagio di sventura, destino rio! Per catturare la vittima, ella ha un metodo infallibile: getta intorno a sé occhiate furtive, aspettando d'incontrare gli occhi di qualche malcapitato. Mai, mai guardare nella sua direzione: come la mitologica Medusa pietrificava chiunque avesse la sventura d'incrociare il suo sguardo, così l'anziana logorroica considera il contatto visivo come un'autorizzazione a attaccare bottone senza pietà. Allora non importa quanto ti farai vedere scocciato, indaffarato, assonnato o sociopatico: la vecchia non ha alcun pudore, vince il premio Faccia di Bronzo ogni anno dal 1973 e se t'infili le cuffie aumenterà il volume della sua voce fino a sovrastare quello della musica. I discorsi di tale ominide s'inscrivono a pieno titolo nella Fiera del Luogo Comune, andando da «non ci sono più le mezze stagioni» a «ah, questi extracomunitari», passando naturalmente per il delitto Scazzi e per la strage di Novi Ligure (se non altro stavolta si è dimenticata di Cogne... senza offesa: vogliamo lasciarli riposare in pace, quei poveri morti?).
S'intende che questo è il modello base. Per i più fortunati c'è la versione full optional: l'anziana logorroica plus. A differenza dell'altra, quest'ultima è capace di attaccare bottone anche senza aver stabilito un contatto visivo, andando a importunare chi se ne sta per i fatti suoi, e di intavolare e mantenere conversazioni con più compagni di viaggio contemporaneamente, stracciando gli zebedei a tutti quanti.
La mia, ovviamente, era un'anziana logorroica plus.
Ho sopportato pazientemente dicendo addio a un'ora e mezza di studio, ma una soddisfazione ho voluto togliermela: quando ha attaccato con la solita storia degli extracomunitari, ho buttato lì un «guardi, signora, il mio fidanzato viene da {il primo Paese extra-UE che mi è venuto in mente} e, con tutto il rispetto, la prego di non venire a fare questi discorsi con me». In tono anche piuttosto seccato, per essere sicura che ci rimanesse di sasso. E che cavolo!

venerdì 5 ottobre 2012

Il galateo dell'e-mail

«Questa vita fatta di lezioni e professori assenti, file chilometriche per fare i documenti, prendere un bel 30 per sentirsi più felici ma sola e senza i tuoi amici».

Così cantava, qualche anno fa, Simone Cristicchi in Studentessa universitaria, che è un po' l'inno ufficiale delle ragazze che si ostinano a studiare in vista della laurea (ministro Fornero, mi spiace, non tutti si laureano «tanto per laurearsi» e giusto per avere un pezzo di carta in più, se ne faccia una ragione).
Ora, per fortuna la parte sulla solitudine e sull'assenza di amici non mi tocca; sono, anzi, convinta che si possa e si debba avere contemporaneamente una media molto buona e una vita. Su tutto il resto, invece, il Cristicchi ci ha preso in pieno. 
Per farla breve, ho la forte tentazione di scrivere a una certa docente: «Gentile professoressa, nei miei messaggi precedenti ho cercato di ignorare l'idiosincrasia che provo da sempre nei suoi confronti e di trattarla con il rispetto che merita il suo ruolo, non certo la sua buona creanza; tuttavia, dal momento che non si degna nemmeno di rispondermi muoia, dottoressa o qualcosa di simile, mi rimangio tutto quello che ho scritto e la mando molto carinamente a Quel Paese. Cordiali saluti, che poi vuol dire "crepi e sciopi al più presto"... almeno dalle mie parti, poi da lei non so».