lunedì 26 agosto 2013

Ma sono tutti matti??

Io odio l'estate.
Cioè, adoro il caldo, i vestitini leggeri, i sandali e ballare sotto la pioggia.
Odio il fatto che l'estate sembra tirare fuori il peggio delle persone.
Vediamo di capirci.



Gente che piange miseria a destra e a manca, salvo poi intasare la home di Facebook con dieci milioni di scatti delle vacanze, tutti instagrammati e tutti uguali.
Sottoinsieme: CoinquiGL che piange miseria per mesi, lascia casa dicendo di non avere più soldi (lasciandomi col sedere per terra da un giorno all'altro, o quasi), poi mi manda cartoline dall'altra parte del mondo, mi telefona dalla casa in montagna, e per finire mi chiede se ha altro tempo per togliere le sue cose perché nel nuovo appartamento dove andrà a stare (ah và??) non ha ancora il letto. Testuale.

Allieve rimandate a settembre di due o tre materie che se ne vanno a Londra, a Malta, a Parigi, in Sardegna o a Stocazzemburg e spariscono bellamente con la benedizione dei genitori perché, cito, «povera crista, deve riposarsi un po'!». E certo, se lo merita. Se avessi portato a casa anche solo mezza insufficienza i miei mi avrebbero mandata a zappare la terra a calci in culo, altro che riposo e vacanze.

Allieve che tornano da Stocazzemburg, si dimenticano di venire a lezione, accampano qualche scusa del tipo «non avevo letto 26, ma 27!» e quando chiedi gentilmente loro di «prestare più attenzione, la prossima volta» cominciano a frignare.
Genitori che dimenticano una verità fondamentale: quando prendi appuntamento con un professionista, se non disdici entro un certo limite di tempo lo paghi comunque. Punto. Stop. Solo un insegnante deve essere l'unico cretino che pretendi di pagare quanto un cameriere e al quale ti permetti di tirare un pacco allucinante (e di avere pure ragione)?

E poi le parole. Santi numi, quante parole sono cambiate in questi giorni! Tanti di quegli slittamenti semantici che non mi ci raccapezzo più.

Corti di Cassazione per le quali dare della battona a una escort è reato. Quindi, se con tanta ironia le faccio notare, che so, «sei una diversamente casta che affitta i propri orifizi al miglior offerente», va tutto bene e nessuno si può offendere?

Amnistie che diventano «agibilità politiche». Quindi, putacaso, un senatore della Repubblica può essere «agibile» come una casa lesionata da un terremoto, una cantina dopo un nubifragio, un cesso dopo un allagamento. Ma agibile, esattamente, per chi?

Stimati professori amanti di Dante che di notte si trasformano inavvertitamente in amanti di allieve minorenni, finiscono in carcere a metà agosto lasciando sotto choc una piccola città borghese chiesarola di provincia (cercate su Google, cercate), ottengono i domiciliari e suscitano un vespaio: colpa delle allieve che volevano avere voti migliori! Quelle svergognate! No, il mio professore non ha colpa, lui è un genio, mi ha fatto amare Dante, io lo amo! No, a Saluzzo queste cose non succedono, noi siamo gente perbene! No, non giudicate, chi è senza peccato scagli la prima pietra, un errore capita a tutti!
Ora, a parte il fatto che si può far amare una materia senza per forza mettere in mezzo sommovimenti inguinali (con «lascia pur grattar dov'è la rogna» il buon Dante intendeva altro, fidatevi). Errare è umano, avere cinquant'anni e scoparsi le proprie allieve sedicenni o giù di lì è da pedofilo. Ma sarò all'antica io, evidentemente. A questo punto fissiamo la maggiore età alla comparsa della prima mestruazione e buonanotte al secchio.

venerdì 5 luglio 2013

Prova d'amore (racconto africano)

In un villaggio vive un re con una figlia buona e bella. Molti giovani facoltosi vogliono sposare la principessa e portano al padre, per ottenerla in moglie, ricchi regali: gioielli, stoffe preziose, noci di kola. La ragazza non sa chi scegliere come marito, perciò chiede al padre di dire a tutti che è morta per capire chi l'ama:
«Caro padre, desidero sposare un uomo che mi ami. Da' a tutti la notizia della mia morte e vediamo che cosa fanno i giovani che mi stanno portando regali».
Il re risponde che è pronto a dare questa notizia, anche se a malincuore:
«Figlia mia, per me è molto triste dire che sei morta anche se non è vero; ma faccio come vuoi, perché so che sei saggia».
Tutti gli abitanti del villaggio piangono per la morte della principessa e le donne cantano tristi canzoni. I giovani ricchi, invece, non piangono, ma chiedono di riavere indietro i loro regali, i gioielli, le stoffe preziose, le noci di kola.
Quando questi vanno via, arriva un ragazzo povero che porta una modesta stoffa e una sola noce di kola da mettere nella tomba della figlia del re. Il giovane, piangendo, confessa di aver sempre amato la principessa, ma di non aver mai detto nulla perché è povero.
Il re, felice, rivela a tutti che la figlia non è morta e che ha trovato l'uomo giusto da sposare: un giovane povero con un cuore d'oro.


martedì 2 luglio 2013

«Le ragazzine non possono lamentarsi se poi le stuprano»

Ovvero: botta-risposta immaginario con l'articolo di M. Cubeddu "Ragazze in shorts, vi siete viste?" (Il Secolo XIX, 01/07/2013)

Qualche settimana fa ero a Roma, per lavoro. Trascorrevo la pausa pranzo a Villa Borghese, sdraiato su una panchina. Quando, a un certo punto, sono stato travolto da una nube di “quartine” in shorts. Con “quartine”, a Roma, si intendono quelle di quarta ginnasio, cioè quattordicenni. Era appena finita la scuola. E le strade si sono riempite di ragazzine di 2a e 3a media. Non solo in shorts, ma anche in “minishorts” (il jeans arrivava molto più in alto della fine dei glutei). Alcune si toglievano le magliette e restavano in reggiseno. Altre, con le magliette bagnate per i gavettoni, il reggiseno non lo indossavano.

Orrore, orrore! Ma dov'è il problema?

Qualche giorno fa ero in Sardegna, in giro per paesi molto piccoli. Anche lì, ragazzine, giovanissime, con una parte consistente di chiappe in vista. Sono rientrato a Genova, per una rimpatriata con la mia classe delle medie. Non vedevo i miei compagni e le mie compagne da più di 10 anni. Siamo andati a bere qualcosa nei vicoli. Straripavano di minishorts.

Ripeto: e quindi? Sarò strana io, ma non vedo nulla di male in una ragazzina in pantaloncini.

Ho chiesto alle mie compagne (non esattamente bigotte): da donne, erano perplesse.

Comportarsi da bigotti e trincerarsi dietro un «non sono bigotto». La scusa più antica del mondo.

Secondo una di loro “non possono lamentarsi se poi le stuprano”. 

Tirare il sasso e nascondere la mano: dire «un mio amico/a mi ha detto». La scusa più antica del mondo, parte seconda. Era vecchia già quando leggevamo le domande idiote sulla posta del cuore di Cioè. E comunque, per assurdo, in base allo stesso principio, anche uno stupratore che finisce in galera non dovrebbe lamentarsi se poi lo pestano...

Ovviamente, non esiste e non deve esistere nessuna giustificazione o attenuante per azioni tanto barbare. La violenza sulle donne è disgustosa.

Per la serie «diciamo tutto e il contrario di tutto, tanto nessuno se ne accorge»...

Anche se, personalmente, penso che femminicidio sia una parola idiota. Ogni omicidio è un omicidio. E dovremmo condannarlo senza ricorrere a ridicole discriminazioni di genere.

Ridicolo mi pare il tentativo di squalificare il concetto di genere nelle discriminazioni. Mettiamo in chiaro una cosa: se un uomo mi rapina e parte un colpo di pistola è un conto, se il mio ex-compagno mi fa del male perché non accetta la fine della nostra storia è femminicidio, se un uomo mi violenta e mi uccide è femminicidio. Fattene una ragione.

Inoltre, anche se impopolare, bisogna dirlo: spesso, le violenze domestiche nascono da situazioni in cui, donne con scarsa personalità, si legano a zotici della peggior risma. Più che una questione di genere, mi sembra una questione di mancanza di strumenti culturali.

E su quale ricerca e quali dati si basa questa bella idea della violenza come figlia dell'ignoranza e dell'incultura? Lo sanno tutti che nelle famiglie colte e benestanti queste cose non succedono, già già. E più che di scarsa personalità, da guardare con commiserazione, il problema è di scarsa autostima, temo.

E, pur prendendo le distanze da ogni inqualificabile molestia, la questione rimane: perché le ragazzine si vestono così da sgualdrine?

No, la questione è: qual è il limite di centimetri di carne scoperta oltre il quale si diventa sgualdrine?

Nessuno dei miei amici si fidanzerebbe con una che si veste così.

O forse, nessuna di quelle ragazze si fidanzerebbe con i tuoi amici. Vista la vostra età e vista quella delle "quartine" che prendi come spunto, tra l'altro, in un'ipotetica relazione ci sarebbe un quid di pedofilo...

E nessuna delle mie amiche si vestirebbe così.

E quindi? Le tue amiche determinano cosa è giusto e cosa è sbagliato?

Non si tratta di moralismo.

Di nuovo...

Personalmente, sono grato a questa moda. È un piacere vedere tutte queste Daisy Duke (chi guardava “Hazard” non può aver dimenticato) girare per le città.

Ma non avevi appena fatto capire che non ti piacevano? Insomma, deciditi...

Ma non capisco perché una ragazzina dovrebbe voler apparire in questo modo. Cosa pensano di ottenere?

Forse a qualcuno non è chiaro che una ragazza/donna non mira costantemente a "ottenere qualcosa". Magari vuole solo vestirsi come le pare.

Le donne, nel mondo, ancora orrendamente fallocratico, stanno accrescendo la loro influenza. Esistono differenze biologiche e di genere che esaltano entrambi i sessi e non sono in contrasto con il successo, la serietà e le capacità delle donne. Che, anche in Italia, acquisiscono, forse troppo lentamente, una maggiore affermazione sociale.

Un modo carino per dire «lasciate le cose come stanno, non combattete lo status quo e trovate la vostra realizzazione in qualche altro modo». Forse non mi è chiaro.

Oggi impazzano le campagne per la parità. Alte cariche dello Stato si sono indignate per le parole di Franco Battiato, volutamente travisate dai media: troie in parlamento.

Ci mancava che non tirasse in mezzo Battiato...

Un giudizio politico impugnato da chi, forse, ha la coda di paglia. Non è con il sensazionalismo che cambieranno le cose. La fine delle discriminazioni passa per l’esito di battaglie di lungo periodo, fragili processi storici e fasi di transizione, che muovono da basi profonde. Il primo motore dell’emancipazione femminile, più che la montagna fumante di reggiseni bruciati in piazza, è stata la salarializzazione della Seconda Guerra Mondiale.

Ecco, la suggerisco io una battaglia: fare sì che una donna possa vestirsi come diamine le pare senza essere per questo considerata una donnaccia, una suora, una figa di legno o chissà che altro. Anche sul posto di lavoro, peraltro.

Ma, almeno parte del proprio destino, è data da scelte individuali.

Torniamo velatamente a «se la vanno a cercare», deduco... PS: complimenti per l'uso creativo della punteggiatura.

Siamo così convinti che mettersi il velo sia prigione e i minishorts siano libertà?

No, non lo siamo (infatti questo l'hai detto tu), ma forse la libertà non dovrebbe passare dalla pelle coperta o scoperta.

Siamo convinti non esista una via di mezzo in cui milioni di donne si trovano perfettamente a loro agio?

E immagino che li conosca tutti tu, questi milioni di donne, per sapere come fanno a trovarsi a proprio agio.

Fin da giovani si può decidere chi si vuole diventare da grandi. Care quartine, a voi la scelta: life is short(s).

Il tocco di paternalismo finale, con tanto di gioco di parole vieto e banale. Evviva!

Metti che l'OCSE ti sbugiarda le politiche sull'istruzione


Lucy: «Ma sì, che poi l'università italiana costa troppo (e allora giustifichiamo i tagli), ci sono troppi studenti (e allora smantelliamo il diritto allo studio), ci sono troppi docenti (e allora blocchiamo il turn-over), ci sono troppi dottorandi (e allora togliamo la borsa), le tasse sono troppo basse (e allora le alziamo). Non vogliamo creare masse di quarantenni frustrati e allora scippiamo un sogno o un desiderio ai ventenni di oggi, ma sì, che sarà mai?».

Amica Noe: «E invece troppi cogl... in politica non ci sono??».


[Ragionando sulle tante fregnacce raccontate da chi pensa, e vuol far pensare, che l'università sia un magico paese di Bengodi in cui si magna e si beve senza ritegno e che lo studio sia un comodo parcheggio per fancazzisti. Di norma chi non vuole farsi il mazzo e non ha voglia di lavorare non ne ha neanche di studiare, sapete com'è.
Certo che se l'obiettivo è avere tanti piccoli schiavetti dequalificati che non abbiano competenze per migliorare il loro futuro a crisi finita...
Meno male che c'è l'OCSE, và.]

lunedì 1 luglio 2013

What women want


Gentili uomini, omini e ominicchi, cercate di mettervi in testa questi semplici concetti:

1. Il fatto che una ragazza cammini da sola, senza un uomo come guardia del corpo, NON fa di lei una donna di facili costumi, NON dà il diritto di abbordarla, e tra l'altro NON implica che sia single.
2. Quand'anche sia single, ciò NON significa che stia lì ad aspettare che qualcuno la abbordi (e soprattutto che quel qualcuno siate voi), ma solo che deve andare in qualche posto a fare gli affari suoi e le va benissimo di andarci da sola (vedi punto 1).
3. Se incrocia il vostro sguardo, questo NON è un segnale di assenso all'approccio: significa che vuole poter guardare dove le pare, foss'anche solo perché a camminare con gli occhi bassi si rischia di finire addosso a qualcuno.
4. Frasi come «sei molto bella» (per fermarsi alle meno volgari e più eleganti) significano «sei molto bella», e come tali vengono percepite. NON significano «ok, l'ho detto, adesso me la dai di tua spontanea volontà o me la devo prendere io?».
5. La vis grata puellis, ammesso che sappiate cosa sia, lasciatela a Ovidio. Una donna, quando vuole dire «sì», state pur certi che lo dirà forte e chiaro. In italiano e in tutte le lingue del mondo, vive, morte o in coma che siano, «no» vuol dire NO.

Per tutti i suddetti motivi, fate un paio di favori all'umanità.

Evitate sguardi suini che danno solo fastidio e non lusingano nessuna.
I vostri "complimenti" viscidi infilateveli su per il naso, o per qualunque altro orifizio vi aggradi.
NON sentitevi in diritto di seguirci per la strada. O fatelo, ma sapendo che prima o poi qualcuna con la testa calda e una buona dose d'incoscienza vi infilerà le chiavi di casa negli occhi suini che vi ritrovate.
Ringraziate caramente le vostre madri (donne come noi, eppure...) per non avervi saputi educare.
Chiedete scusa agli uomini che sanno come comportarsi con una donna e portarle il rispetto che merita (ce ne sono a milioni).
E infine sparatevi.

giovedì 20 giugno 2013

Di Quintiliano e di Omero (ma anche di Seneca, e di maturità passate e presenti)

Maturità 2013: alla fine è uscito Quintiliano.
(Detto tra noi, ma quant'è brutto? E dai, Marco Fabio, sorridi!)


L'anno in cui diedi l'esame di maturità mi capitò Seneca. Speravo in Cicerone, mentre il professor CC (storico docente del liceo classico di Città Mesopotamia, che probabilmente fu costruito intorno a lui già nel lontano 1812) cercava di spaventarci con frasi come «secondo me uscirà Agostino». E chi l'aveva mai visto, Agostino? Giusto un'infarinatura quando avevamo affrontato la patristica, in filosofia. Non sapevamo cosa ci perdevamo. Ci capitò invece Seneca, il maledetto. 
Andò più o meno così. Frase uno: dai, è solo una riga, questa è facile, ce la si fa. Frase due: non un punto fermo fino alla fine della versione. Ohccazzo. Mi guardo intorno con circospezione: i miei compagni che si tengono la testa tra le mani. Mi armo di pazienza e di bustine di miele, testa bassa, inizio a tradurre. La sfango sbagliando solo una parola. Uno stupido quid.

Devo dire che quest'anno è andata meglio. Dopo l'Aristotele assurdo dell'anno scorso, d'altronde, era difficile fare di peggio. Come ogni anno, mi sono cimentata anch'io con la versione della maturità, giusto per non perdere lo smalto e vedere se sono ancora in grado.
Di seguito una mia ipotesi di traduzione e il testo della prova.

«Ma adesso affronto i generi letterari stessi che, a mio avviso, si addicono maggiormente a coloro che intendano diventare oratori. Dunque, come Arato ritiene che si debba iniziare da Giove, ugualmente ci sembra opportuno e legittimo cominciare da Omero.
Questi infatti, proprio come dice che dall'Oceano abbia inizio il corso stesso di fiumi e sorgenti, ha dato un modello e un impulso a tutte le parti dell'eloquenza. Lui, nessuno potrebbe superarlo quanto a sublimità negli argomenti elevati e a proprietà in quelli minori. Sempre lui è fecondo e essenziale, gradevole e grave, mirabile talvolta per la ricchezza, talaltra per la concisione, straordinario non solo per capacità poetica ma anche per valenza oratoria.
Del resto, per tacere delle lodi, delle parenesi e delle consolazioni, il nono libro, in cui è contenuta l'ambasceria ad Achille, o la contesa tra i capi nel primo libro, o i pensieri espressi nel secondo, non sviluppano tutte le tecniche dell'oratoria giudiziaria e deliberativa? Senz'altro, per quanto riguarda le emozioni, che siano miti o concitate, nessuno sarà tanto ignorante da dire che questo autore non le padroneggiasse perfettamente.
Suvvia: non è forse vero che all'inizio di entrambi i poemi, in pochissimi versi, la legge dei proemi è stata da lui non dico rispettata, ma costituita? In buona sostanza, egli rende l'ascoltatore contemporaneamente benevolo con l'invocazione alle Dee ritenute patrone dei vati, interessato con la grandezza degli argomenti che gli mette davanti e ben disposto a seguirlo con una rapida sintesi degli avvenimenti. E in verità chi può narrare con più concisione che il messaggero della morte di Patroclo, o in maniera più significativa di colui che racconta la battaglia tra Cureti e Etoli?».

Sed nunc genera ipsa lectionum, quæ præcipue convenire in tendentibus ut oratores fiant existimem, persequor. Igitur, ut Aratus ab Iove incipiendum putat, ita nos rite coepturi ab Homero videmur. Hic enim, quem ad modum ex Oceano dicit ipse amnium fontiumque cursus initium capere, omnibus eloquentiæ partibus exemplum et ortum dedit. Hunc nemo in magnis rebus sublimitate, in parvis proprietate superaverit. Idem lætus ac pressus, iucundus et gravis, tum copia tum brevitate mirabilis, nec poetica modo sed oratoria virtute eminentissimus. Nam ut de laudibus exhortationibus consolationibus taceam, nonne vel nonus liber, quo missa ad Achillem legatio continetur, vel in primo inter duces illa contentio vel dictæ in secundo sententiæ omnis litium atque consiliorum explicant artes? Adfectus quidem vel illos mites vel hos concitatos nemo erit tam indoctus qui non in sua potestate hunc auctorem habuisse fateatur. Age vero, non utriusque operis ingressu in paucissimis versibus legem prohoemiorum non dico servavit sed constituit? Nam et benivolum auditorem invocatione dearum quas præsidere vatibus creditum est et intentum proposita rerum magnitudine et docilem summa celeriter comprensa facit. Narrare vero quis brevius quam qui mortem nuntiat Patrocli, quis significantius potest quam qui Curetum Ætolorumque proelium exponit?
(Quint. Inst. or. 10, 1, 45-49)

lunedì 10 giugno 2013

Pezzi di universo

Sei lì che cerchi di raccogliere i cocci di una settimana da dimenticare e a un certo punto, mentre torni a casa, un pagliaccio ti sorride dolcemente, ti porge una tessera di puzzle blu e oro e ti dice: «Ti regalo un pezzetto dell'universo...».

E ti viene quasi voglia di credere che ognuno di noi, senza nemmeno saperlo, possa essere l'angelo custode di qualcun altro.




Postilla: mi dicono dalla regia che il pagliaccio in questione si chiama Folletto Graziano e gira spesso sui treni che da Augusta Taurinorum portano a Ventimiglia, passando per Città Mesopotamia. Ovunque tu sia in questo momento, Folletto Graziano, grazie.

In memoria di un bambino mai nato

Se tutto fosse andato secondo i piani, a metà agosto sarei diventata Zia Lucy.
La nostra strana famigliona, invece, dovrà aspettare ancora un po' per allargarsi. Lo sappiamo da febbraio, ma solo adesso trovo la forza per scriverne.

Razionalmente, mi dico che forse è meglio così, che la mia amica è troppo giovane per avere un bambino e che in questo momento fa un lavoro troppo pesante per godersi una gravidanza; che in fin dei conti conviene aspettare ancora un po', mettersi qualche soldino da parte e aspettare di avere qualcosa di più che un contratto di apprendistato (lei) e contratti a termine da rinnovare ogni tre mesi (lui).

Emotivamente, invece, mi dico: cazzate. Io per prima non avrei il coraggio di mettere al mondo un figlio adesso, e neanche tra un paio d'anni, e non sono neanche sicura di essere una di quelle donne che vogliono avere figli, però... però.

Che razza di nazione è quella in cui per fare figli devi ragionare in base al conto in banca e non in base ai tuoi desideri?

Che razza di società è quella in cui la pillola anticoncezionale diventa uno strumento sindacale?

giovedì 6 giugno 2013

Come si sente una donna

Traduco in italiano la versione spagnola dell'articolo "Como se sinte uma mulher", scritto dalla blogger brasiliana Claudia Regina per la rivista online, dedicata a un pubblico maschile, Papo de homem. L'articolo, pubblicato il 22 maggio 2013, in due giorni ha raggiunto 600.000 visualizzazioni e 3200 commenti, che hanno sovraccaricato il server su cui si trovava la pagina.
Lo stile è semplice, senza inutili fronzoli, diretto e preciso. Parole, taglienti come rasoiate, che centrano il punto e mettono nero su bianco quello che ogni donna ha sempre pensato e non ha mai saputo dire.
Da leggere e da far leggere, soprattutto agli uomini.


È successo ieri. Esco dall'aeroporto. In un percorso di dieci metri, vedo solo uomini. Tassisti fuori dalle macchine che parlano. Funzionari in maglietta: «Serve una mano?». Un uomo con la cravatta, la sua valigetta e il cellulare in mano. Uomini diversi, sparsi in questi dieci metri di cammino. Andando per questi dieci metri, mi sento come una gazzella che passeggia tra i leoni. Sono guardata da tutti. Misurata. Analizzata. Il mio corpo, i miei glutei, i miei seni, i miei capelli, le mie scarpe, la mia pancia. Tutti mi stanno guardando.


È successo quando avevo tredici anni. Praticavo uno sport tutti i giorni. Uscivo dalla palestra e camminavo per circa due isolati fino alla fermata dell'autobus alle sei di sera. Camminavo sul marciapiede quasi vuoto di una grande strada. Di queste camminate mi ricordo due momenti memorabili di questa violenza urbana. Macchine che rallentavano quando si avvicinavano, e dentro si sentiva una voce maschile: «Sei bella!». Uomini soli che passavano lungo il marciapiede, si guardavano indietro e dicevano: «Che delizia». Io avevo tredici anni. Portavo pantaloni lunghi, scarpe da ginnastica e maglietta.

Adesso moltiplica questo per tutti i giorni della mia vita. So che per gli uomini è difficile capire come questa possa essere violenza. Noi stesse, donne, ci abituiamo e lasciamo che sia così. Ci abituiamo per poter vivere la vita di tutti i giorni.

Uno di questi giorni stavo seduta in spiaggia guardando il mare dal quale usciva una giovane. È passata vicino a un tipo che le ha detto qualcosa. Lei si è allontanata ed è venuta camminando verso di me. Le ho detto: «Buonasera», lei ha detto che l'acqua era deliziosa e abbiamo parlato un po'. Le ho chiesto se il tipo le avesse detto qualche stupidaggine. Le mi ha detto: «Sì, ma siamo talmente abituate, vero? Queste cose le ignoriamo automaticamente».

Il privilegio è invisibile. Per un uomo è possibile riconoscere il privilegio solo se c'è empatia. Prova a immaginare un mondo dove, per cinquemila anni, tutti gli uomini fossero stati sottomessi, violentati, assassinati, limitati, controllati. Prova a immaginare un mondo dove per cinquemila anni solo le donne fossero scienziate, fisiche, capi della polizia, matematiche, astronaute, mediche, avvocate, attrici, generali. Prova a immaginare un mondo dove per cinquemila anni nessun rappresentante del tuo genere si sia distinto nel teatro, nell'arte, nel cinema, in televisione. A scuola apprenderesti la storia fatta dalle donne, la scienza fatta dalle donne, il mondo fatto dalle donne.


Nella sua opera "Una stanza tutta per sé" Virginia Woolf descrive il motivo per cui sarebbe stato impossibile per una ipotetica sorella di Shakespeare scrivere come lui. Woolf dice:

Quando leggiamo di una strega bruciata, di una donna posseduta dal demonio, una saggia donna che vende erbe […] credo che stiamo vedendo una scrittrice persa, una poetessa annullata.

Dall'inizio del patriarcato, da cinquemila anni, le donne non hanno avuto sufficiente libertà per essere scienziate o artiste. Woolf spiega:

La libertà intellettuale dipende da cose materiali. […] E le donne sono sempre state povere, non solo per duecento anni ma dall'inizio dei tempi.


Sebbene il mondo stia cambiando, esistono ancora minori opportunità e riconoscimenti per cui le donne e le minoranze esercitino qualsiasi occupazione intellettuale. I lettori di una pagina Facebook sulla scienza ancora suppongono che il suo autore sia un uomo e commentatori televisivi non considerano le manifestazioni culturali che vengono dalle favelas come vera cultura.

È vero: oggi la vita è migliore, soprattutto per una donna occidentale come me. Però, sebbene sia una donna libera e di successo, che vive in una metropoli culturale, ancora sento sulla pelle le conseguenze di questi cinquemila anni di oppressione. E se tu volessi vedere questa oppressione non avresti bisogno di andare sui libri di storia. Devi solo accendere la televisione.

Rio de Janeiro, 2013. Una coppia viene sequestrata in un furgone. Le sequestratrici si sono messe uno strap-on sporco che puzzava di merda e di muffa, e hanno violentato il ragazzo. Tutte loro, una per una, mettevano quel dildo enorme nel culo del giovane, senza preservativo né lubrificante. La fidanzata, poverina, ha cercato di fare qualcosa, però l'hanno legata e l'hanno presa a pugni e calci.

Al leggere la notizia, ti immedesimi nella vittima (che ha sofferto una delle peggiori violenze fisiche e psicologiche esistenti) o in chi guarda? Naturalmente i generi sono scambiati, la violenza reale è accaduta alla donna.

Quante violenze subisco solo perché sono una donna?


Durante l'infanzia non mi hanno lasciata essere scout perché non era una cosa da bambine. Mi hanno violentata a otto anni (io e almeno due terzi delle donne che conosci tu hanno subito una violenza di questo tipo e probabilmente non l'hanno raccontato a nessuno). Ho sofferto durante tutta l'adolescenza perché non mi comportavo in maniera femminile. Perché non avevo seni. Perché non avevo capelli lunghi e lisci. Da sempre la mia sessualità è stata repressa dalla famiglia, dalla società e dai media. Qualsiasi cosa facessi male mi costava l'accusa di essere una sfaticata.

In uno dei miei primi impieghi ho sentito dire che le donne non lavorano tanto bene perché sono molto emotive e soffrono di sindrome premestruale. In un altro lavoro il mio capo mi ha detto che avevo dei capelli brutti e mi ha pagato un parrucchiere perché me li facessi lisciare, per essere più presentabile per i clienti. Ho deciso di non essere schiava della depilazione e vengo guardata con schifo quando mi metto i pantaloncini o le magliette smanicate. Ho usato molto trucco solo perché la televisione e la pubblicità fanno vedere donne truccate, e per questo è molto facile sentirsi brutte con il viso pulito. Tu, uomo, sai cos'è il trucco? C'è un prodotto per rendere la pelle omogenea, uno per nascondere le occhiaie, un altro per nascondere le macchie, uno per colorare le guance, uno per esaltare le sopracciglia, un altro per le ciglia, un altro per colorare le palpebre, un altro per colorare le labbra. Quante volte ti sei messo così tanta roba in faccia solo perché il tuo capo, o una persona al primo appuntamento, ti avrebbe visto brutto con la faccia pulita?

Quando sono in metropolitana mi posiziono in un luogo sicuro perché nessuno mi si strusci contro. Tu lo fai? Quando vado a riunioni familiari mi chiedono perché sono così magra, che cosa ho fatto con i capelli e se ho un fidanzato. A mio cugino chiedono cosa sta studiando e che lavoro fa. In televisione il 90% delle pubblicitá mi denigrano. Quasi nessun film mi rappresenta o passa il Test di Bechdel. Tutte le donne sono mostrate con vestiti sexy, perfino le eroine che si suppone dovrebbero usare vestiti comodi per le battaglie. Le riviste mi insegnano che il mio obiettivo a letto è piacere a un uomo.

Mentre tu, uomo, comparavi il tuo pene con quello dei tuoi amici, a me, donna, insegnavano che masturbarsi è una cosa molto brutta e che se portavo minigonne non meritavo rispetto. Quanto tempo ho tardato a liberarmi della repressione sessuale e a convertirmi in una donna a cui piace scopare? Quanto tempo ho tardato per liberarmi a letto e per venire, mentre alcune delle mie compagne continuano a preoccuparsi se il loro partner vede la cellulite o il rotolo di ciccia e per questo non arrivano all'orgasmo? Quanto tempo ho tardato ad avere il coraggio di guardare un cazzo senza scopare a luce spenta? Quante volte ho ascoltato, mentre guidavo, un «ecco vedi, naturalmente era una donna»? Quante volte hai tagliato la strada a qualcuno e hai ascoltato un «ecco vedi, proprio un uomo»? Tutto questo per, a fine giornata, andare a cena in un ristorante e non ricevere il conto quando lo chiedo, perché da cinquemila anni sono considerata incapace. E tutto questo, cazzo!, per sentirmi dire che sto esagerando, che il maschilismo non esiste più.

Questo è un riassunto di quello che soffro o corro il rischio di soffrire tutti i giorni. Io, donna bianca, eterosessuale, di classe media. La donna nera soffre più di me. La donna povera soffre più di me. La donna orientale soffre più di me. Ma tutte soffriamo dello stesso male: nessun paese del mondo tratta le sue donne tanto bene come tratta i suoi uomini. Nessuno. Né Svezia, né Olanda, nemmeno l'Islanda! In tutto il mondo civilizzato soffriamo violenze e abbiamo meno accesso all’educazione, al lavoro o alla politica.

In tutto il mondo siamo ancora le sorelle di Shakespeare.
**
E tu, lettore uomo, quando ti abbordano in maniera ostile per la strada, pensi «per favore, non mi tolga il cellulare» o «per favore, non mi stupri»?


Tutte le fotografie sono autoritratti di Claudia Regina, che ringrazio per aver concepito uno dei testi, a mio avviso, più belli che siano mai stati scritti.

mercoledì 5 giugno 2013

Manualetto per direttori d'orchestra (parte seconda)

(segue)


11. Non pretendete di capire e conoscere i problemi dei colpi d'arco o di dettare le arcate di un brano, fate come fanno quelli seri: lasciate fare alle prime parti, fate solo richieste musicali semplici e comprensibili tipo «vorrei più legato o staccato, vorrei più piano o più forte, vorrei un attacco più morbido, vorrei che evitaste quell'accento non scritto o che evidenziaste quell'altro previsto» etc.; alle arcate o alle soluzioni tecniche ci pensano spalla e capofila.

12. Non cercate di vivacchiare solo con le battutine e le spiritosaggini usate tipo scudo umano o captatio benevolentiæ: il direttore d'orchestra non deve essere simpatico, deve fare quello che deve fare (dirigere), punto e basta. Cominciate con quello. Tutto il resto è opzionale.

13. Il «carisma innato» è la balla del secolo; direttori d'orchestra non si nasce, basta con queste stupide leggende: lo si diventa, e con durissimo studio e lavoro pari a quello di uno strumentista.

14. «Arturo Toscanini, uno dei più grandi direttori d'orchestra di tutti i tempi, era burbero, severissimo, e bistrattava gli orchestrali!». Vero, com'è vero che nessuno di voi è Toscanini.

15. Nell'Opera lirica le battute vuote si segnano tutte, anche se è una bella menata. Non fate movimenti inutili, gesti in più oppure omissioni, gli orchestrali sanno contare ma lo fanno con voi.

16. L'orchestra non è un juke-box, continuare a ripetere da capo non serve a nulla, e si capisce benissimo che lo state facendo per ripassarvi la partitura o semplicemente per autocompiacimento nel dirigere. Occorre saper dire con precisione cosa non va, e come si può rimediare: non esiste l'espressione generica «è stonato», bisogna saper dire chi cala o chi cresce; non esiste l'espressione generica «non è insieme», bisogna saper dire chi anticipa o chi ritarda.

17. Il labbro degli strumentisti a fiato è delicato, non si può pretendere che insegua oltre il lecito la vostra smania di provare un passo; guarda caso, spesso più si ripete e peggio viene.

18. Cominciate a provare un brano da capo, non fate capire prima ancora dell'inizio che siete o dei principianti o, peggio ancora, degli assoluti incompetenti.

19. L'Orchestra si fa alzare in piedi sempre, al momento degli applausi; specialmente nel sinfonico occorre far alzare o perlomeno indicare anche gli esecutori di eventuali "a solo" importanti. Si stringe la mano o alla sola spalla o agli archi della prima fila, e se il concertino dei primi è una signora o signorina si stringe la mano prima a lei e dopo alla spalla.

20. Non esiste il gesto «bello». Per favore, buttate via quello specchio che avete in camera e davanti al quale passate ore a rimirarvi mentre vi sbracciate magari già vestiti in frac. Nella direzione d'orchestra non esiste nessun gesto bello, elegante, magnetico o carismatico: esiste solo il gesto chiaro, quello che si capisce.
Il resto è ventilazione.

Manualetto per direttori d'orchestra (parte prima)


(adattato da un post che ho trovato geniale)

Venti consigli teorico-pratici per gli incapaci che si improvvisano direttori d'orchestra, utili al fine di una pacifica sopportazione da parte dei poveri fachiri orchestrali.

Premesso che la direzione d'orchestra comporta le tre seguenti regole ferree e irrefutabili:

A) Conoscenza il più possibile approfondita della partitura che si deve dirigere
B) Possesso di un'idea musicale chiara e definita da trasmettere agli esecutori
C) Essenzialità e inequivocabilità del gesto

e dando per scontato che non siate in grado di garantire i suddetti fondamentali, invito a seguire le seguenti istruzioni:

1. Il battere è in giù, il levare è in su; i tempi deboli solitamente si segnano con movimenti laterali del braccio; evitate di indicare con la bacchetta o con gesti vari gli esecutori, o di dare attacchi con lo sguardo o facendo «sì» velocemente con la testa; ricordatevi che meno vi muovete, meno danni fate.

2. Nella preparazione del gesto ci sono già il tempo e la dinamica (e coi maestri seri anche il colore), se fate un movimento da parcheggiatore aeroportuale non potete aspettarvi che un'orchestra attacchi piano, e se fate scatti da centometrista aspettatevi che parta in "prestissimo con fuoco" anche di fronte ad un "largo e mesto".

3. Non usate mai espressioni come «...facciamo dal vostro trrrrr», «...partiamo dove i bassi hanno quel zum zum» «...dopo il bum del timpano tutti fermi» etc..; usate riferimenti professionali come l'ordine alfanumerico delle battute o il nome delle note.

4. Non fate lezione di storia della musica, non spiegate agli orchestrali la vita di Beethoven, Mozart o Bach, nemmeno steste illustrando le meraviglie di uno specchietto colorato ai selvaggi di un'isola remota; ammesso e non concesso che ci sia qualcuno che non sappia già da diecimila anni quello che state raccontando, ricordatevi: l'orchestrale di solito vuole solo suonare sicuro di arrivare in fondo al brano che esegue con tranquillità, di tutto il resto non gliene frega un c...

5. Evitate espressioni astruse: «voglio un suono smerigliato», «sussurrate come perle che rotolano in un secchio d'argento», «datemi un colore felpato», «lusingando ma con fermezza», etc.: gli orchestrali sono persone molto suscettibili, soprattutto alle dieci del mattino.

6. Se un esecutore sbaglia una o più note è colpa sua.
Se un esecutore stona una o più note è colpa sua.
Se un esecutore va per aria forse è colpa sua, forse è colpa vostra.
Se una sezione va per aria forse è colpa del capofila, forse è colpa vostra.
Se due sezioni vanno per aria è colpa vostra.
Se un'orchestra intera va per aria è colpa vostra.
Se un'orchestra intera non vi segue è colpa vostra.
Se un'orchestra intera attacca un altro tempo è colpa vostra.
Se al decimo tentativo l'orchestra si assesta su un tempo differente dal vostro, ha ragione l'orchestra, e quindi è colpa vostra.

7. Se una orchestrale è in gonna corta e muove insistentemente le gambe accavallandole a più riprese, tranquilli, non sta cedendo al vostro fascino travolgente di grande maestro; probabilmente si veste così perché le va punto e basta, se ambite a una conquista evitate di fare i duri e/o gli splendidi durante la prova, scendete dal podio e approcciate in separata sede con naturalezza e gentilezza. Di solito funziona meglio così, anche se nulla è scontato.

8. Le pause nel lavoro esistono e si devono fare, non si «concedono». E servono anche a voi.

9. Nelle corone si sta fermi. Fermi!

10. La mano destra è per l'orchestra, quella sinistra serve ai cantanti, ad esempio per guidarli quando eseguono le cadenze in duo, terzetto quartetto ecc., oppure per dare un attacco al coro; se le muovete entrambe quando non serve, aspettatevi l'attacco a tradimento di due/tre sezioni dell'orchestra.

(continua)

lunedì 3 giugno 2013

Mi sono rotta il cazzo

Dei vicini del piano di sopra che sbattono dal balcone tovaglie tappeti scope vestiti bagnati non centrifugati e quando ti lamenti ti guardano male e vorrebbero ancora avere ragione.

Dei metrosexual che si fingono gay soltanto per avvicinarti e provarci con te anche se sanno che sei fidanzata.

Dei genitori che urlano con bambini indisciplinati che loro per primi non sono stati in grado di educare.

Delle ragazzine con l'iPhone d'ordinanza che non sanno nemmeno che nel nostro Paese siamo al 40% di disoccupazione giovanile, figuriamoci se sanno che cosa capita ai loro coetanei che in altri Paesi muoiono di troppo lavoro per produrre i componenti del loro telefonino del cazzo.

Di quelli che non trovano immorale spendere 700 € per un telefonino del cazzo.

Delle donne che sborsano 60 € per farsi le unghie e poi vanno in giro coi baffi.

Dei ricconi che si comprano il mega-appartamento sul Po e poi si lamentano del rumore ai Murazzi (avevi solo da pensarci prima, pirla).

Di quelli che vivono col timore di sembrare poveri, ostentano tutto ciò che hanno e poi mangiano pane e cipolla e piangono miseria coi parenti, sperando che questi ultimi scuciano qualcosa.

Di quelli che al volante sono convinti di avere sempre ragione perché loro guidano un macchinone e io una Panda del 1996 (prima di ridere della mia auto finite di pagare le rate della vostra).

Delle mamme ultraquarantenni platinate che vanno a prendere i figlioli alla scuola privata, parcheggiano rigorosamente sulle strisce perché fare due passi in più col tacco 12 è troppo faticoso, bloccano la strada e fanno le MILF zoccole col SUV pagato dal marito cornuto.

Di coloro che son tutti pederasti col deretano altrui.

Dei padri che appena gli porti a casa uno straccio di fidanzato ti vedono già sposata, accasata e con quattro figli e pretendono di avere voce in capitolo sul tuo utero.

Delle cugine che indossano uomini come abiti, si ammirano tanto da volersi portare al dito e ti guardano come una povera minorata perché loro-si-sposano-col-primo-mentecatto-che-ci-è-cascato-e-tu-no.

Di quelli che pensano che lo studio sia un comodo parcheggio per gente che non ha voglia di lavorare.

Di coloro che sono andati in pensione con sedici anni, sei mesi e un giorno di contributi previdenziali e si lamentano che «i giovani di oggi sono viziati e vogliono troppo».

Degli uomini che fanno l'amore sempre con lo stesso ritmo forsennato e si stupiscono se dopo un po' non senti più nulla (sai com'è, non è foderata di eternit e titanio, dopo un po' si stanca).

Di quelli che giurano di amarti alla follia ma non si impegnano perché la loro genitrice non è ancora pronta a vederli lasciare il nido...

... e anche di quelli che dopo tre nanosecondi ti presentano mamme, nonne, zie, amici d'infanzia, cani, gatti e canarini (ma che la virtù sta nel mezzo se lo sono dimenticati tutti?).

Della metropolitana di Torino che si blocca sempre dieci minuti prima che parta il mio treno, sempre a tre fermate dalla stazione FS.

Degli scioperi GTT che, guarda caso, cadono sempre di venerdì, tranne oggi che è lunedì e ieri era il 2 giugno, ma è solo una bizzarra coincidenza.

Dei compagni di università che passano gli esami copiando e riescono a prendere meno di quanto hai preso tu onestamente, ma se ne fregano perché tanto si laureano lo stesso e tra qualche mese proveranno comunque a soffiarti il posto al dottorato.

Dei farmacisti e dei gioiellieri che dichiarano di guadagnare meno dei loro dipendenti.

Dei figli dei suddetti farmacisti e gioiellieri che all'università soffiano le borse di studio ai figli dei dipendenti statali che dichiarano anche quante mutande hanno nel cassetto del comodino.

Dei primi ministri che provano a chiudere la stalla dopo che i buoi sono fuggiti e si scusano coi giovani costretti a lasciare il Paese.

Di «scusa», che in fin dei conti è solo una parola come un'altra e non cambia le cose.

Due giugno, the day after

(pubblicato sul quotidiano online targatocn.it)

Ho aspettato, per scrivere, che la Giornata della Repubblica (proprio non ce la faccio a chiamarla Festa) fosse conclusa. Ho guardato la trasmissione della parata, ho letto molto di quel che è stato scritto.
Ovviamente un gran fiume d'inchiostro e di pixel sulla Patria, sulla pace, sulla difesa della nostra cultura, sull'orgoglio di essere italiani, ma senza retorica, chiaro, e via di questo passo.
Mi sono sempre chiesta se abbiano un campionario di luoghi comuni e frasi fatte che tirano fuori dalla naftalina insieme al vestito delle grandi occasioni. Un'altra domanda che mi sono sempre rivolta è quale cultura ci sia ancora da difendere, visto che a ogni pie' sospinto ci è ricordato che non ci sono soldi, che bisogna tagliare, che dobbiamo tutti fare sacrifici e che «con la cultura non si mangia».
Ho rinunciato a voler capire se per sentirsi orgogliosi di essere italiani sia necessaria un'esibizione muscolare che mi ricorda tanto una versione riveduta, militarizzata e corretta delle gare preadolescenziali a chi ha, con rispetto parlando, l'attributo sessuale maschile più sviluppato. Pensavo che per sentirsi orgogliosi bastasse fare bene il proprio lavoro, manuale o intellettuale che sia, portare benefici a sé e alla collettività, ma dev'essere perché sono una donna: sono sprovvista di membro virile, non ho mai fatto le gare con le mie amichette della scuola media, quindi non posso capire certe cose.
Mi sono rassegnata, o quasi, all'idea che la pace si (es)porti con la forza delle armi: evidentemente i nostri governanti hanno tutti quanti letto la settima Filippica di Cicerone, composta poco dopo la metà del I secolo a.C., e hanno apprezzato in particolare il periodo si pace frui volumus, bellum gerendum est: «se vogliamo godere della pace, è doveroso fare la guerra». E come si fa a non apprezzarlo? Bello com'è, semplice, deciso, in stile Twitter ventidue secoli prima della nascita di Twitter. E poi è Cicerone. Mica pizza e fichi.
Una cosa, però, l'ho trovata di pessimo gusto. Non lo scialacquare due milioni di euro per una parata e avere ancora il coraggio di parlare di «sobrietà». Neppure il voler a tutti i costi essere «una grande potenza», rincorrendo standard che vanno forse bene per altri Stati, per altre economie, e buttando alle ortiche l'immenso potenziale economico, storico, culturale, ambientale e gastronomico che ci contraddistingue, quello sì, rispetto a tutte le altre nazioni del mondo.
No, la cosa davvero fastidiosa per me è stata un'altra. Mi riferisco a un'esternazione di ieri da parte di un ministro della Repubblica a proposito dei noti aerei F-35: «siamo già in una difficile condizione per la nostra Marina, perché rischiamo nel 2025 di non avere una flotta adeguata per il mantenimento dei nostri impegni: vanificare anche l'occasione di avere un'aviazione efficiente sarebbe una grave responsabilità. Un debito di sicurezza che ci assumeremmo nei confronti dei nostri figli».

Se mi fosse concesso di rispondere alcunché, sarebbe all'incirca questo: NON IN NOSTRO NOME. Non in nome di tutti i figli di questa Italia che cercano di sopravvivere, di trovare un posto nel mondo, e la cui unica fonte di sicurezza è trovare una sola buona ragione per perdonare una madrepatria che si va trasformando in terra matrigna.
O, in termini più semplici: tranquillo, signor ministro, quello è l'ultimo debito nei nostri confronti di cui deve darsi pena. Se proprio vuole preoccuparsi di qualcosa, ricordi le parole di Sandro Pertini: «si svuotino gli arsenali di guerra, sorgente di morte, si colmino i granai di vita per milioni di creature umane che lottano contro la fame». Oppure, se lei e i suoi compari siete proprio convinti che spendere i soldi della Repubblica in armi sia cosa buona e giusta, almeno abbiate la decenza di trovare una scusa migliore che la sicurezza di una generazione di cui, evidentemente, non importa nulla a nessuno.

P.S.
Giusto per mettere le cose in chiaro: con la cultura forse non si mangia, ma si evita di essere mangiati!


«E se non hai morale
e se non hai passione
se nessun dubbio ti assale
perché la sola ragione che ti interessa avere
è una ragione sociale
soprattutto se hai qualche dannata guerra da fare
non farla nel mio nome
non farla nel mio nome
ché non hai mai domandato la mia autorizzazione
se ti difenderai non farlo nel mio nome
ché non hai mai domandato la mia opinione».
(Daniele Silvestri, Il mio nemico)

venerdì 26 aprile 2013

Curriculì curriculà (again and again)


«Azienda affermata cerca persona giovane, dinamica e volenterosa da inserire nel proprio organico. La ricerca è rivolta a  laureati in discipline umanistiche/giuridiche con il massimo dei voti, età massima 25 anni, con esperienza di almeno 5 anni nella mansione. Richiesta un'ottima conoscenza delle lingue (scritte e parlate): inglese, cinese, araba, klingon e sindarin, ottima conoscenza del PC (pacchetto Office, Facebook, posta elettronica, SAP, AS400, HTML, CAD, JAVA, CCP, CQC, PPT), ottime doti relazionali, di problem solving, self-control, e ottima dialettica. Avranno titolo preferenziale persone di bella presenza con ottima conoscenza del primo soccorso. Automunito. Essenziale residenza a non più di 5 km dal luogo di lavoro. Mansione: centralinista-portacaffè.

Contratto: 3 mesi di stage non retribuito.

Se interessati inviare il CV a: info(at)richiestedisumane.it. Seguirà colloquio conoscitivo con test psico-attitudinale-culturale. L'offerta è rivolta ambosessi (D.Lgs 198/2006)».


«Alla cortese attenzione del resposabile della selezione del personale.
Io sottoscritta Lucy ********, nata a ********** il ********** e residente a **********, desidero sottoporre alla sua cortese attenzione la mia candidatura per un'eventuale assunzione.


Sono una persona normale, con due gambe, due braccia, due mani e una testa (pensante e funzionante, ma non so quanto questo sia un bene). Ancora per quest'anno ho l'immensa fortuna di essere nella soglia dei 25 anni. Ho conseguito la maturità classica nella mia città con il massimo dei voti. La medesima valutazione ho ricevuto per la laurea triennale e per la laurea specialistica, per la quale la mia tesi ha ottenuto la dignità di stampa, dopo aver concluso nei cinque anni previsti (cosa non da poco) il mio percorso universitario. Nel frattempo, per non stare con le mani in mano e potermi mantenere da sola senza pesare sui miei genitori, mentre i miei colleghi universitari saltavano da una festa all'altra, ho dato lezioni private di latino, greco, italiano, inglese, francese, chimica, storia e fisica, cosa che faccio tuttora con grande entusiasmo malgrado la mancanza di stabilità.

Ho una buona conoscenza del pc; oserei dire ottima, per ricoprire il ruolo di centralinista-portacaffè (e anche addetta alla fotocopiatrice, immagino). Oltre a conoscere il pacchetto Office, che sembra essere imprescindibile nonostante sia un'assoluta ciofeca come il 90% dei prodotti Microsoft, ho una buona padronanza dei sistemi operativi Debian, Linux Mint e Ubuntu e so cavarmela con un Mac senza avere crisi isteriche o attacchi di panico. Le mie lauree in Lettere Classiche e in Filologia, Letterature e Storia dell'Antichità, apparentemente inutili, mi hanno obbligato a conseguire una conoscenza più che buona dell'inglese e del francese (sa com'è, da noi se non si conoscono almeno due lingue comunitarie non ci si laurea) e all'occorrenza so sopravvivere con lo spagnolo, il catalano, qualcosina in tedesco e due parole in croce di albanese (ma immagino non serva a molto). Ahimè, per l'arabo e il cinese dovrò attrezzarmi... ma prima mi illumini: quale arabo? Quello classico o quello maghrebino? No, perché c'è differenza, per esempio nella sintassi, e se devo farmi comprendere da un madrelingua non è cosa da poco. Con «cinese», poi, che cosa s'intende? Il cinese mandarino, parlato da appena 885 milioni di persone? O quale altro? Il gruppo sino-tibetano comprende, oltre al mandarino, altre 448 lingue. No, dico, solo per sapere. Giusto per non mettermi a studiare la lingua sbagliata.

Potrei scoprire di avere un sacco di doti, se solo avessi la possibilità di dimostrarle.

Mi perdoni, ma non capisco bene come sia possibile essere laureati e avere esperienza pluriennale con un'età massima di 25 anni; a quanto pare esistono degli esseri, non credo umani, dotati di tali requisiti, giacché costoro vengono SEMPRE richiesti negli annunci.
Probabilmente devo avere un quoziente intellettivo inferiore alla media, poiché non riesco nemmeno a capire come possa io fare esperienza se nessuno considera i miei CV dato che ho poca esperienza (perdoni il bisticcio).

Dubbi a parte, le comunico la mia più ampia disponibilità in tutto: definizione degli orari di lavoro, della tipologia di contratto, indirizzo di residenza, eventuali corsi di qualsivoglia genere e durata, pagamenti periodici per avermi dato la possibilità di arrivare almeno al colloquio, et cetera.

Dopo i miei ultimi colloqui, sono lieta di anticiparle che so quante e quali province ci sono in Piemonte, quanti kilobyte ci sono in un megabyte, i numeri da 0 a +infinito in inglese e da 1 a 10 in proto-indoeuropeo, che 4+4-8 fa 0 e che in media il colloquio per fare la portacaffè (pardon, centralinista) dura dalle due alle quattro ore in base al tipo di test presentato.

Prima di salutarla, ci terrei a rivolgerle una domanda: fino a vent'anni fa una persona con la licenza media inferiore, al massimo diploma liceale, era in grado di svolgere quasi ogni tipo di professione. Che differenza c'è tra un diplomato di allora e una laureata di oggi, come me, quando ci sediamo per la prima volta davanti a una scrivania? Sia detto senza alcun intento di offesa per i diplomati, naturalmente.

In attesa di un cortese riscontro, porgo cordiali saluti.

P.S.: la prego, almeno lei non abbia l'orrenda abitudine di non rispondere neppure "la sua richiesta è finita dritta dritta nel tritarifiuti". Basta anche solo un "crepi e sciopi al più presto" per sentirsi meno presa per il deretano. In caso contrario, se mai riuscirò a fare la professoressa in una scuola vera, preghi che suo figlio non mi abbia mai come docente. A lui non farò nulla di male, ma con lei mi divertirò molto il giorno dei colloqui scuola-famiglia».

giovedì 25 aprile 2013

Magistra, sed cuius rei?

Il lavoro dell'insegnante e quello del medico non sono così diversi, trovo. Il compito di entrambi è salvare vite: il medico dalla malattia e dalla morte, l'insegnante dall'ignoranza (fingendo di dimenticare che, come sta scritto in Qoelet, molto sapere, molto dolore). Sto imparando a amare l'ambiente delle lezioni private, poiché mi permette di stabilire un legame diretto con l'allievo. A tu per tu, si creano un rapporto e una confidenza che in una classe di venticinque, trenta persone è difficile trovare. Sei a contatto con emozioni e desideri, senza filtri che non siano il naturale pudore di un adolescente. A ricordarsi di come si era qualche anno prima e a saper leggere tra le righe, senza lo scudo del "gruppo" è più facile che la mente dell'allievo diventi quasi un libro aperto. Si comprende che cosa quella giovane mente si prefigge, come aiutarla a giungervi, e insegnante e allievo lavorano insieme, imparando ognuno dall'altro. Per quanto io altro non sia che una portatrice sana di sicuro precariato (Bersani dixit... il cantante, non il politico), a volte ho la sensazione di fare il lavoro più bello del mondo.

Per questo, quando mi sento dire da un'allieva in una situazione un po' problematica parole come «forse sarebbe meglio se fossi bocciata, almeno non mi passo un'estate di merda a studiare», avverto un senso di tristezza infinito. La sua resa come allieva è un mio fallimento come insegnante. E mi fa male, perché in tutta coscienza penso davvero di aver fatto tutto il possibile.
Forse ho lo stesso problema dei medici quando perdono qualche paziente: devono capire che non possono salvare tutti. Non sono dèi e ci sono cose che, molto semplicemente, sfuggono al loro controllo. Ma, fino a qualche giorno fa, io davvero avevo la presunzione di poter "salvare" tutti. Non perché io sia chissà chi, ma poiché ho sempre creduto fermamente che con la disciplina e la volontà si può arrivare a qualunque traguardo.
Se è così, quello che è mancato è la volontà. Io posso fare di tutto per far amare la materia a un'allieva, ma se le manca la voglia di impegnarsi e di farsi il mazzo non posso essere io a dargliela, né i genitori a comprargliela. Ma di chi è la colpa?

Sarà colpa mia? Non so dove posso aver sbagliato, ma non lo escludo a priori. Urge esame di coscienza.
Vogliamo dire che è colpa di un liceo classico torinese troppo elitario e pretenzioso per la preparazione che effettivamente dà, con una concezione malata di sé e dei suoi studenti, sempre teso a scremare tutto e tutti con pressioni psicologiche assurde per un adolescente, al punto da trasformarsi in un ospedale che cura i sani e respinge i malati? E diciamolo.
Vogliamo mettere in mezzo gli insegnanti ginnasiali, ipotizzare che alzino troppo l'asticella per il semplice gusto di operare un po' di sana selezione naturale? Nulla vieta di pensarlo.

Ma non è solo questo. Un po' ce l'ho anche con un certo tipo di genitori ricchi: i ricchi scemi, i ricchi ignoranti, quelli che a malapena sanno qual è la capitale d'Italia e si sono fatti i soldi nel periodo in cui bastava un qualsiasi pezzo di carta per lavorare. Gente che lavora milioni di ore al giorno, non bada ai figli e poi per mettersi l'anima a posto li vizia, se li compra. Quelli che quando la figlia porta a casa una sfilza di 4 le regalano l'iPhone 5.
E anche quelli che «tu fai il liceo classico perché io ho fatto il liceo classico, è un'ottima scuola e non si discute», senza considerare i desideri della figlia, le sue inclinazioni, le sue potenzialità e i suoi limiti, anche. Ricchi ignoranti anche loro, in un certo senso, ché non basta lo studio a rendere intelligenti. 
[Come dice un mio saggio amico, la cultura è come il pene: se non sai dove metterlo è inutile.]
«L'ho fatto io, l'ha fatto tuo nonno e lo fai tu». E allora ci si trascina stancamente seguendo questo diktat, studiando materie che io posso anche far piacere, ma che non sono ciò che realmente si vorrebbe fare nella vita... perché si deve fare.

Ecco, lo confesso: a volte mi sorprendo a sperare che questa crisi duri. Venti, trent'anni. Che studiare diventi ancora più difficile e che, per reazione, i ragazzi della prossima generazione studino perché davvero lo vogliono. Che considerino lo studio come un mezzo di ribellione, di affrancamento dalla miseria culturale e sociale in cui saremo (siamo?) precipitati. Che la scuola, privata o pubblica che sia, torni a essere considerata un luogo in cui si formano giovani teste pensanti, e non semplicemente un becero diplomificio o un supermercato dove conseguire una maturità in un buon liceo da esibire come status symbol. Io sputerò sangue tutta la vita e non sarò mai nessuno, ma mi sta bene. Perché terrò botta, e sarò lì a vedere il giorno in cui uno dei miei allievi mostrerà che forse con la cultura non si mangia, ma si evita di essere mangiati. E continuerà a studiare, nonostante tutto.

mercoledì 17 aprile 2013

Bloghdad

Quando ho saputo dell'esistenza di EB avevo quindici anni. Portavo i tacchi alti sotto i jeans, magliette fucsia troppo scollate per una ragazza di quell'età («ma tanto non c'è nulla da vedere», mi giustificavo forte del mio fisico a manico di scopa), osavo colori di make-up che oggi non esiterei a definire imbarazzanti. Era agosto e faceva un caldo soffocante. Ero reduce dalla mia prima delusione amorosa e, come ogni quindicenne con la sindrome del cuore spezzato, andavo ripetendo che la vita era una merda e non mi sarei mai più innamorata.
In quella calda e banale estate del 2004, la faccia di EB si materializzò sul mio televisore. Non sapevo chi fosse, né che cosa diavolo ci facesse in Iraq. Bello che quando c'era stato da manifestare contro le sporche guerre in Afghanistan e in Iraq ero stata, con tutti i miei compagni, in prima fila. Ricordo che dicevo: «sarà un nuovo Vietnam», e non potevo neanche lontanamente immaginare quanto poco mi stessi allontanando dalla verità.
Fatto sta che verso la terza settimana di agosto scopro che da qualche parte in Iraq è stato rapito un signore che guarda la telecamera del video dei rapitori con un piglio da giornalista di guerra e che tiene un blog da Baghdad. Figuriamoci, io a quindici anni a malapena so cosa sia, un blog. Ma quella faccia, quella vicenda, mi colpisce. Bam, un pugno in piena pancia. E domande, tante domande. Perché prendersela con uno come lui, che di armi in mano non ne ha e che è assai più simile all'Ulisse dantesco in viaggio fino alla fine (... ma misi me per l'alto mare aperto) che all'Odisseo che escogita l'inganno del cavallo per uccidere uomini e radere al suolo una città. Le contraddizioni di un fuoco che si ha il coraggio di chiamare «amico» (Orwell, bontà di Dio, quanto avevi ragione). E un corpo che sparisce, per avere una degna sepoltura solo a distanza di anni.
Sono passati quasi nove anni dalla sua morte. Solo oggi ho avuto il coraggio di leggere il suo ultimo blog, Bloghdad, di cui ho trovato la trascrizione in pdf. Pian pianino tornerò indietro, in un viaggio da Timor Est alla Colombia, ma ho voluto cominciare dalla fine. Per provare a capire qualcosa di quell'uomo che non ho mai conosciuto, ma che mi ha lasciato, in qualche strano inspiegabile modo, le impronte digitali sul cuore.
Ho letto Bloghdad d'un fiato. Ho riso per le scene di ilarità dopo un attacco missilistico o per gli sprazzi di normalità che uno non si aspetta in un teatro di guerra, chissà poi perché (quando ho letto «chissà se c'è figa a Baghdad» per poco non mi sono ribaltata dalla sedia). Ho avuto i brividi, di tenerezza e di commozione, lasciandomi trasportare nel reparto grandi ustionati dell'ospedale della Croce Rossa Italiana. E poi la svolta, la decisione di trasportare medicine e aiuti a Najaf, assediata dagli statunitensi, mentre altri omini della CRI, lontani migliaia di chilometri, se ne lavano le mani. E alla fine il comunicato dell'imboscata, in uno stile così diverso, poiché scritto da altre mani ancora.
Io Enzo Baldoni non l'ho mai conosciuto, e m'incazzo, perché avrei voluto conoscerlo. In Bloghdad ha scritto che la vita ha il sopravvento sulla morte, ed è vero. Non sono però soltanto le buone azioni a rimanere, come si crede comunemente, ma anche le parole. Scrivere è la chiave per l'immortalità.

«Si è parlato molto di morte in questi giorni: della morte serena di Zio Carlo, filosofo e yogi, che forse sapeva la data del suo trapasso. Guardando il cielo stellato ho pensato che magari morirò anch'io in Mesopotamia, e che non me ne importa un baffo, tutto fa parte di un gigantesco divertente minestrone cosmico, e tanto vale affidarsi al vento, a questa brezza fresca da occidente e al tepore della Terra che mi riscalda il culo. L'indispensabile culo che, finora, mi ha sempre accompagnato».





... infin che 'l mar fu sovra noi richiuso.

domenica 14 aprile 2013

La fatidica domanda

... no, non è: «Vuoi sposarmi?».


A volte mi soffermo a pensare a quanto grande sia la quantità di domande inopportune che possono essere rivolte a una persona: credo sia pari soltanto al coefficiente-facciadibronzo necessario per formularle.

La migliore in assoluto, naturalmente, è: «come va?».
Senza esagerare, è un grande classico. A ogni occasione sociale, a ogni incontro più o meno fortuito, il Come Va è la tentazione cui quasi nessuno sa, o vuole, resistere. Se già in un periodo "normale" si situa ai limiti dell'indiscreto (sconfinando talvolta nel "non so cosa dire ma devo rompere il ghiaccio e sono passati troppi pochi secondi per parlare del tempo"), in questa fase storico-economica chiedere come va è da de-fi-cien-ti.
Punto numero uno: se mi conosci e mi sei vicino sai già come sto, non hai bisogno di chiedermelo. Se me lo chiedi, vuol dire che non sei mai stato abbastanza interessato alla mia vita da avvicinarti e non vedo perché tu debba interessartene adesso, solo per riempire un minuto di conversazione in cui non c'è nulla da dire.
Punto numero due: se mi chiedi come va, mi costringi a rispondere. La scelta va da «sono affari miei» a «vuoi davvero saperlo?». Senza contare che il Come Va non prevede mai come risposta: «male, grazie». Se non sei interessato alla mia vita, l'ultima cosa che vuoi è sentirti raccontare la mia personalissima Historia calamitatum mearum.
Punto numero tre: se mi chiedi come va, mi costringi a chiederti a mia volta come va, anche solo per cortesia. E se a me la tua risposta importa quanto a te importa la mia? Se non me ne può fregar di meno? Come la mettiamo?

Un sottotipo particolare del Come Va è il Come Va Giornalistico, cavallo di battaglia dei telegiornali. Scena: amenità a scelta tra cataclisma, terremoto, tsunami, disastro nucleare, incendio, strage del sabato sera, carneficina et similia. Giornalista domanda a un sopravvissuto o, in mancanza d'altro, a un amico/parente del caro estinto: «come va?». Idiota patentato, hanno scelto casa mia per le prove generali del Giudizio Universale, secondo te come può andare??

Un'altra bella è: «allora, ce l'hai il fidanzato?». Prerogativa di parenti e amici di famiglia.
Se la risposta è «no», segue sguardo di commiserazione. O, in alternativa, di sospetto (da leggere: «se non ne hai uno... non è che ne hai molti? Oppure ne hai una? O molte? O molti e molte? Aaaah peccatrice!!». E se anche fosse?).
Se la risposta è «sì»... no. Mai, mai rispondere di sì a una domanda del genere! Il discorso prende più o meno questo tenore:
«Allora, ce l'hai il fidanzato?».
«Eh... sì».
«Ah, che bello! Quando ce lo presenti?».
«Ma veramente io...».
«Dai, i cugini/gli zii/la nonna/il cane il gatto il pesce rosso/tutti i congiunti fino alla settima generazione saranno felicissimi di conoscerlo!».
[Per inciso: ecco perché non lo presento.]
Ma non finisce qui: la particolarità di questa domanda è che è soggetta a evoluzione. Una volta conosciuto il fidanzato, la domanda muta in: «allora, a quando le nozze?». Dopo le nozze (sempre che il malcapitato fidanzato non sia fuggito prima, innamorandosi perdutamente di un'orfana) diventa: «sì, adesso avrete un figlio o volete aspettare un po'?». Dopo il primo figlio: «non sarebbe ora di dare un fratellino o una sorellina a questa creatura tutta sola?». Sì, guarda, adesso mi metto a generare un numero spropositato di figli. Ma solo per dare a te, parente serpente, modo di chiedermi: «ragazzi, ma non volete proprio fermarvi?».

Poi c'è la Domanda Bastarda. Quella da non fare mai, e sottolineo mai, a un precario, e men che meno a un neolaureato. Ho il sospetto che alcuni conoscenti particolarmente sadici raggiungano l'orgasmo nel chiedere: «dimmi, hai trovato lavoro?».
Senti, mi sono laureata dieci giorni fa. So anch'io che prendere 110 e lode non vuol dire più niente, ma lasciami almeno il tempo di capire che cosa vuol dire «dignità di stampa» (un'altra cosa inutilissima, immagino). Come cantava il mio amato Samuele Bersani qualche anno fa: togli la ragione e lasciami sognare, lasciami sognare in pace. Tanto non è che fuori casa ho la fila di gente che mi rincorre per offrirmi un lavoro migliore di quello che faccio, quindi dieci giorni in più o in meno da pseudo-insegnante privata non fanno nessuna differenza. 
E poi scusa, ma ti pare? Avrei tappezzato la città di cartelloni, se avessi trovato qualcosa di un pochino più stabile. Avrei pagato da bere a tutti e chiamato i parenti. Anche quelli di secondo, terzo e quarto grado, crepi l'avarizia.
Una buona risposta da dare sarebbe: «sì, guarda, mi sono fatta assumere in Mondial Casa. Così posso finalmente provare a venderti una padellata di CAZZI TUOI».

mercoledì 13 marzo 2013

Habemus papam

«Non c'è nulla di grande nel simulare o nell'ostentare digiuni col viso triste e pallido, nell'abbondare di rendite dai propri possessi e vantare un mantellino da quattro soldi. Il famoso Cratete di Tebe, uomo un tempo ricchissimo, quando si diresse ad Atene per praticare la filosofia gettò una gran quantità d'oro e non ritenne di poter possedere insieme la virtù e le ricchezze. Noi, invece, seguiamo Cristo povero imbottiti d'oro; e se nascondiamo le ricchezze della nostra precedente vita sotto il pretesto dell'elemosina, come possiamo distribuire fedelmente i beni altrui, quando in maniera pavida teniamo i nostri beni per noi? Una pancia piena parla facilmente di digiuno».

«Il vero tempio di Cristo è l'anima del credente: è quella che devi adornare, è quella che devi rivestire, è a quella che devi offrire doni, è in quella che devi accogliere Cristo. A che serve che le pareti rifulgano di gemme e che Cristo nella persona di un povero muoia di fame?».

Gerolamo (san Gerolamo, per chi ci crede) scrisse queste parole nel 395. Mai come stasera, ho la speranza che si possa andare in questo senso, milleseicentodiciotto anni dopo.
Io non so se il primo papa figlio di migranti, il primo Francesco (nome, non a caso, mai usato nella storia del papato), sarà all'altezza delle aspettative e delle tremende pressioni su di lui. Me lo auguro e glielo auguro. Spero in un papa meno conservatore, anche se le etichette valgono poco e lasciano il tempo che trovano. Prego per un papa che sia in grado di aprire al mondo omosessuale, al sacerdozio femminile e più in generale al pieno riconoscimento della dignità delle donne, che metta al centro della sua azione gli umili, i diseredati, gli emarginati, le minoranze di ogni genere e colore. Un papa che combatta fino in fondo, senza paura e senza guardare in faccia nessuno, le storture e il marciume che si sono accumulate in una Chiesa sempre meno casa di Dio e sempre più spelonca di ladri. Un papa che riporti tra noi la bellezza commovente di una divinità che è padre, ma è anche Madre, come osò dire Giovanni Paolo I.
(Ratzinger, ai suoi tempi, può aver detto quello che vuole: io non rinuncerò mai a rivolgermi, più ancora che al padre nostro che è nei cieli, alla Madre nostra che è sulla Terra.)
Spero che Jorge Mario, Francesco I, porti qualcosa di buono. Per il resto, le parole di Gerolamo continuano a risuonarmi in testa, come un monito: venter plenus facile de ieiunio disputat.

venerdì 8 marzo 2013

Bilancio

Tesi consegnata.

Alla faccia della giovane e scheletrica tesista number two del mio relatore, che ha amato chiedermi con la sua vocina melliflua e il suo sguardo da serpe: «ma non finisci più?». Risposta pensata: «ti piacerebbe, carina...». Risposta pronunciata: «sì, guarda, mi piace a tal punto che penso continuerò per sempre. Ma non è che abbia scritto e basta, in questi mesi: ho anche fatto altro... sai com'è, fuori di qui io ho una vita».

Alla faccia delle mie amiche, o presunte tali, che continuavano a chiedermi di unirmi al loro cazzeggio pur sapendo benissimo che avevo da concludere le ultime cose e da lavorare, e che appena ho finito la stesura sono sparite e hanno cominciato a scagarmi. E va bene, dolcezze: io so aspettare, e vedremo chi si divertirà quando anche voi dovrete lavorare per vivere.

Alla faccia del mio relatore, che ci metteva ogni volta una settimana a correggere quattro cagate in croce e che si prenderà mille euro sull'unghia, così.

Alla faccia della mia contro-relatrice, che mi massacrerà per qualunque virgola fuori posto e che non si scomoda a leggere tesi che non siano superfighe, rilegate in pelle umana et similia (e certo, tanto mica paga lei. Vuole anche una fettina del mio deretano, già che c'è? Ne ho giusto un po' da smaltire).

E in fondo lo so che non è importante, che non vuol dire nulla, che non mi aiuterà ad avere un lavoro migliore e che tra qualche anno guarderò con tenerezza mista a imbarazzo quelle duecentosessantatré pagine rilegate in seta rossa. Però, in questo momento, ho voglia di pensare una sola cosa: e chi se ne frega? Ho consegnato la mia tesi di laurea magistrale, accidenti. Rispetto a chi non può neppure cominciare gli studi perché non trova i soldi, o l'incoscienza necessaria a buttarsi senza certezze di quel che sarà, sono comunque una privilegiata. Comunque vada, questi cinque anni mi hanno dato tantissimo, in termini umani, didattici e professionali, facendo quella che per me è la cosa più bella del mondo. Questo, nessuno me lo potrà mai togliere.

lunedì 25 febbraio 2013

#guardachetoccafàpeccampà

Il problema non è avere a che fare con gli allievi, ma coi genitori.
Mamma preoccupata che mi telefona alle 12:30 per chiedermi se posso andare a casa sua alle 15:30 invece che alle 15 (quando mi ero messa d'accordo autonomamente con la mia allieva già giovedì scorso) perché «sai, altrimenti mia figlia oggi mangia soltanto un panino».
Oh, povera stella.
Ora, a parte il fatto che quando andavo a scuola ero talmente stanca, e avevo già mangiato tante schifezze delle macchinette durante la mattinata, che a fine lezione più che uno spuntino non riuscivo a fare.
Ma insomma: non mi pare che per un panino sia mai morto di fame qualcuno. Io stessa stasera cenerò a chissà che ora con un tramezzino sfigato, sul 14, di ritorno dalla ridente Nichelino, e non è certo il caso di farne un affare di Stato. Chi per lavoro è costretto a pranzare sempre coi panini, allora, che cosa dovrebbe dire?
E che cosa dovrebbe dire chi nemmeno li ha, i soldi per un panino?

venerdì 22 febbraio 2013

Politicando (parte terza)


Ultimamente si fa un gran parlare di onestà.
«Che i prossimi eletti siano incensurati, non inquisiti, oppure tutti a casa!».
«Voto Tizio perché è onesto... no, il programma elettorale non l'ho capito bene, ma ha una faccia pulita, sembra una persona a posto».
Ma siamo sicuri che questo basti? Ho l'impressione che l'onestà non si misuri solo in termini di fedina penale. Non sta scritta nel casellario giudiziario.
Si può essere incensurati e gestire un'azienda che ufficialmente impiega collaboratori volontari, i cui compensi non risultano da nessuna parte.
Si può essere incensurati e "dimenticare" di stampare qualche scontrino ogni tanto.
Si può essere incensurati e offrire stages da 150 € al mese, nove ore al giorno, cinque giorni su sette, perché tanto per uno che ancora ha la forza di rifiutare (lo chiamano choosy, ma forse è colpa di quella brutta malattia che si chiama dignità) ce ne sono dieci più disperati.
Si può essere incensurati e ritenere cosa buona e giusta che i migranti muoiano nel tentativo di arrivare in Italia.