mercoledì 26 dicembre 2012

Eva e Lilith (di Lerici, di Pontifex e di altre cose)


Esistono sacerdoti per i quali l'appellativo «don», dal latino dominus, «signore», suona stridente. Assai poco di signorile si trova nelle loro esternazioni e nei loro comportamenti, che paiono fatti apposta per allontanare le persone dotate di un minimo di apertura mentale dalla Chiesa. Bastano poche parole buttate con tracotanza, quanto basta d'odio e un pizzico di ignoranza (reale o costruita che sia), e lo scontro è servito. Certe volte viene da pensare che ce la mettano tutta per provocare.
Impiego questo verbo non a caso: proprio sul concetto di provocazione si basano le tesi di Piero Corsi, parroco di Lerici (SP). Stando a quanto scritto su un volantino affisso in chiesa, le donne dovrebbero «fare autocritica» e riconoscere di provocare le reazioni violente degli uomini. Altro che femminicidio. Il succo è: ti picchiano? Colpa tua, ché non guardi i figli e non accudisci la casa come dovresti, passi troppo tempo a lavorare. Ti violentano? Colpa tua, ché hai scoperto troppi centimetri di pelle o hai guardato negli occhi l'uomo sbagliato. Ti uccidono? Dolcezza, te la sei cercata. Beninteso, questa non è solo farina del suo sacco: il Corsi ha ripreso alcuni stralci da un editoriale apparso su Pontifex.Roma, «blog cattolico non secolarizzato» (sic).
La notizia, riportata dal Secolo XIX, è rimbalzata sui maggiori media, provocando sdegno. Non si è fatta attendere la replica di Pontifex.Roma, su cui è apparso un nuovo articolo che si scaglia contro «l'arroganza dei tuttologi» e «la crociata dei pezzenti»: le reazioni indignate sarebbero spropositate e dovute all'ignoranza della dottrina. Viene sbandierata l'affermazione ignoramus et ignorabimus, traducibile grosso modo come «siamo ignoranti e continueremo a esserlo»: peccato che il seguito dell'editoriale sia per la maggior parte un collage di passi estrapolati dalla Summa Theologica di Tommaso d'Aquino, in traduzione (senza uno straccio di testo critico, in lingua originale, su cui verificarla), senza commento. Non esattamente il modo migliore per rischiararci dalle tenebre della peccaminosa ignoranza in cui ci è stato detto che versiamo. Ignoramus et ignorabimus, adesso sì. Inoltre, Tommaso d'Aquino è stato un pensatore, un teologo, un commentatore. Certamente un gigante, ma non la Verità assoluta. Se ci si ritiene cristiani è doveroso studiare le opere dei Padri, ma senza dimenticare che il centro del messaggio cristiano è un altro. Gesù Cristo. Quello va studiato, quello va approfondito, quello va discusso, quello va comunicato. Stop.
Scendiamo, però, dal piano del sacro alla vita quotidiana. Usiamo un po' di semplice buon senso. Dire che le donne lavorano troppo e non badano più alla casa come dovrebbero è una chiara mistificazione: al giorno d'oggi, già si fa fatica a tirare avanti con due stipendi, figuriamoci con uno. Alzi la mano un uomo al quale faccia schifo un'entrata finanziaria supplementare. Quanto ai figli, si fanno in due. Bisognerebbe anche crescerli in due, allora. O forse che, quando non fa comodo, sono soltanto della madre?
Riguardo alla violenza sessuale, liquidarlo col solito «te la sei andata a cercare» è ingiusto, semplicistico, criminale. Non fa bene a nessuno: alle donne, ma anche agli uomini che le rispettano. L'idea di base è: basta un niente perché gli uomini ti saltino addosso, quindi stattene buona e vedrai che non corri rischi. Ma il problema vero è la libertà femminile o la devianza di certi uomini? Siamo alla malattia che cerca di convincere il medico che il problema sia la parte del corpo sana. Se un uomo, attraente finché si vuole, va in giro a torso nudo, nessuno si sogna di aggredirlo, e di certo sarebbe così persino se la sua nudità fosse integrale. Per quale motivo una donna deve avere paura di vestirsi in un certo modo o addirittura di uno sguardo di troppo? E non si tiri fuori il solito discorso di «quelle che vanno in giro vestite come puttane»: se un uomo la pensa in un certo modo (tu sei mia e io faccio di te quello che voglio, quando voglio) puoi indossare una minigonna o una tuta, non cambia nulla. La violenza sessuale non sarà annullata vestendoci di sacco e rinchiudendoci in casa; è necessario estirpare, piuttosto, questo habitus mentale: «faccio di te quel che voglio perché sei una donna, per il semplice fatto che sei donna». Oppure, il che è lo stesso, «per il semplice fatto che ti percepisco come più debole di me». Dicano, i signori di Pontifex, i possessori e garanti della Verità: anche le bambine vittime di violenza provocano? Anche i bambini violentati dai pedofili se la vanno a cercare?
Che cosa insegnerò ai miei figli? A mia figlia insegnerò ad aver paura degli uomini, a rifiutare il contatto con loro o, al contrario, a usare il proprio potere seduttivo per trarne vantaggi, invece che a godersi il dono dell'amore? A mio figlio insegnerò che l'uomo è cacciatore e che è nella sua natura disporre di altre persone a proprio piacimento, anche a prescindere dalla loro volontà? No, non ci sto. Per certuni è comodo affermarlo, per non perdere potere. Ma non è così, e chi sostiene il contrario mente sapendo di mentire.

In giornata il volantino è magicamente sparito dalla bacheca. In compenso, però, Paolo Poggio del GR2 è riuscito a mettersi in contatto con il parroco: questa è la trascrizione della telefonata e qui si sente l'audio.
Domanda: «Lei ha scritto “le donne facciano autocritica, quante volte provocano?” o non l'ha scritto?».
Risposta: «Capisce che se lei una frase la sgancia dal prima e il dopo, può far dire cose molto diverse da quelle che sta dicendo, no?».
D.: «Però questa cosa l'ha scritta?».
R.: «Le ritorno a ripetere quel che ho detto prima, cioè scusi quando lei vede una donna nuda cosa prova? Quali sentimenti prova? Quali reazioni prova?».
D.: «Beh ma questo che c'entra?».
R.: «Non so se è un frocio anche lei o meno, cosa prova quando vede una donna nuda? Non è violenza da parte di una donna mostrarsi in quel modo lì?».
D.: «Senta, ma quindi la sua tesi qual è, che se una donna...».
R.: «No no io non faccio tesi volevo soltanto porre un problema per riflettere, non ho tesi, non ho niente da dire, solo riflettere, non facciamo delle ideologie che poi... allora la saluto mi son stufato».
E riaggancia il telefono.

Allora, cerchiamo di mettere ordine.
Dapprima, il parroco fa una mossa ormai collaudata e molto in voga nel nostro Paese, quella che io chiamo la tattica del «sono stato frainteso». In pratica si dice tutto e il contrario di tutto e poi si sostiene che alcune frasi siano state decontestualizzate e strumentalizzate. Quando ti esprimi in pubblico, però, non sei solo responsabile di quello che dici, ma anche di prevedere come il tuo discorso sarà recepito e di provare a immaginare le reazioni. Troppo comodo tirare il sasso e nascondere la mano.
Poi: quando un uomo vede una donna nuda, o esperisce determinate reazioni (ossia la violenza «provocata» dalla donna stessa? Sorge il dubbio...) oppure è omosessuale. Anzi, è un frocio tout court. In un colpo solo discriminiamo gli omosessuali e trattiamo da bestie incapaci di autocontrollo gli uomini eterosessuali. Fossi un uomo mi offenderei.
Inoltre, il colpo di genio: una donna nuda fa violenza nei confronti di un uomo. Quindi la violenza non è lo stupro, la tortura, l'omicidio: la violenza è tutta femminile, quella dell'uomo è legittima difesa? Forse è un caso, ma qui si torna a un passo di Tommaso d'Aquino citato da Pontifex.Roma: la violenza è condannata, la legittima difesa no. Ora i conti tornano. Nessuno, però, mi toglie l'impressione che un uomo che percepisce la nudità femminile come una violenza abbia seri problemi psichici.
Per finire, sostiene di aver voluto dare solo uno spunto di riflessione. Io questa non la chiamo riflessione, ma intolleranza. Questa sì che è una forma di violenza, un insulto all'intelligenza e alla dignità dell'essere umano, uomo e donna. Bisognerebbe reagire con la massima intransigenza, fare il vuoto intorno a chi la pensa in questo modo e non permettere che possa ricoprire posizioni pubbliche. Quali insegnamenti possono venire dal pulpito di un intollerante? Se fossi una fedele della parrocchia di San Terenzo a Lerici, in questo momento direi una sola cosa, che è la stessa che dico in quanto semplice cristiana: NON IN MIO NOME.

Qualcuno avrebbe dovuto dire al Corsi, portavoce di una mentalità malata, repressa e depravata, una massima molto nota: meglio tacere e sembrare idioti che parlare e fugare ogni dubbio. Evidentemente non la conosceva, oppure ha voluto strafare.

martedì 25 dicembre 2012

Tunak Tunak Tun (e traduzione!)

In occasione della festa della pace e dell'amore (almeno, così dicono), il momento musicale di oggi non può che essere dedicato a una canzone d'amore. Attenzione, però: questa è una love song appartenente a un genere cui non siamo molto abituati, il bhangra pop.


L'artista, Daler Mehndi, viene dall'India, precisamente dalla regione del Punjab. Verso la metà degli anni '90, quando ancora non ha trent'anni, diviene famoso con tre album in punjabi che divengono campioni d'incasso nel mercato indiano.
Siamo nel 1998 quando, alle critiche che lo accusano di dovere la sua popolarità alla sola presenza di affascinanti fanciulle nei video, Mehndi risponde con un video dallo stile molto diverso: quattro suoi cloni, abbigliati in colori diversi a simboleggiare i quattro elementi, danzano e cantano sulle note di una melodia allegra e trascinante. La canzone, Tunak tunak tun, ottiene un successo senza precedenti. Basta dare un'occhiata su Youtube per vedere quante, negli anni, sono state le sue parodie.
Mehndi è ancora in attività, è stato in tour negli USA e oltre che come cantante e attore è impegnato anche in opere filantropiche, ma Tunak è ancora il suo più grande successo. Chi si aspettava che una canzone bhangra pop in punjabi potesse viaggiare sull'ordine dei trenta milioni di visualizzazioni su Youtube?

Visto che non ho trovato una traduzione in italiano del testo, ci provo io. Prima, però, se non avete ancora avuto il piacere di ascoltare questa canzone e di guardare il video, filate su Youtube! Ve lo consiglio, perché merita davvero :-)

Dholna, vaje toombe vali taar
sun dil di pukar
aaja kar liye pyaar
dholna


Amore mio, le corde della toomba (1) suonano
ascolta ciò che dice il cuore
vieni qui e amami
amore mio

Duniya yaara rang-birangi
na eh bhaidi na eh changi


Il mondo è pieno di colori
non è né buono né cattivo

Sun yaara bole iktaara
Mehndi Da Yaaraa


Ascolta ciò che dice l'iktaara (2),
amore di Mehndi

Dholna kadeh mere naal hass
mainu dil wali dass
nahin taan teri meri bass
dholna


Amore mio, vieni e sorridi con me
dimmi che cosa c'è nel tuo cuore
altrimenti sarà finita tra te e me
amore mio

Dholna tu chann main chakor
saade warga na hor
rabb hath saadi dor
dholna

Amore mio, tu sei la luna e io il chakor (3)
non c'è nessuno come noi
la nostra vita è nelle mani di Dio,
amore mio

Note:
1- la toomba è uno strumento a corde tipico del Punjab, che si suona con le dita o con un plettro
2- anche l'iktaara è uno strumento a corde (sarebbe più corretto dire a corda, visto che ce n'è solo una); da questa è derivata la toomba
3- il chakor (Alectoris chukar) è un piccolo volatile, simile alla pernice rossa; una leggenda sostiene che sia innamorato della luna.

Adesso che conoscete la storia di Tunak, buone danze a tutti! E, naturalmente, buon Natale.

giovedì 20 dicembre 2012

L'eccezione alla regola

Ci ho pensato: è vero che, come ho scritto qui, il correttore è il migliore amico di una donna; è però altrettanto vero che l'atto di emancipazione massima è non truccarsi. Soprattutto dopo una serata vagamente alcolica, aver dormito quattro ore e aver preso lo spigolo del pensile in cucina con la testa.

Christmas time

Ora, partiamo dal presupposto che io odio il Natale.

Provo tutti gli anni a farmelo piacere, ma puntualmente verso la metà di dicembre mi sono già stancata di persone sull'orlo di una crisi di nervi, armate di coltello tra i denti e pronte a vendere la propria madre per comprare un regalo.
Sabato scorso, per esempio, mi sono ritrovata un tizio che inveiva contro di me e un'altra ragazza perché eravamo andate a pagare alla cassa appena aperta e, quindi, ancora non satura di persone. Ma insomma, testa di rapanello, è tanto difficile da capire che se aprono una cassa sarà perché la gente ci vada a pagare e non ci sia una coda da venti fantastiliardi di persone a un solo sportello? Per evitare lo scontro ho fatto la finta tonta, gli ho ceduto il posto e mi sono anche beccata le scuse del personale. Mi sono limitata a commentare: «meno male che a Natale si è tutti più buoni, dovrebbero risparmiare i soldi dei regali e usarli per l'analista».

Altro motivo per cui odio il Natale sono le cene di Natale. Mi limito a parlare di quelle con gli amici, ché per i parenti servirebbe un post a parte.
Tifavo Maya anche perché quest'anno speravo di scamparla, ma gli amici sono stati più furbi: la cena è stata anticipata a ieri sera, il 19. Dannazione. Coinqui C, che ormai non è più una Coinqui e vive col suo attuale boyfriend, ha invitato tutti da lei. E vabè, ci tocca, on y va.
Coinqui C è una bravissima ragazza, una cara amica, le sarò sempre riconoscente perché mi ha fatto conoscere l'uomo di cui mi sono innamorata (l'intento non era quello, diciamo che ci siamo fatti prendere la mano), ma ha un difettuccio: il braccino corto.
Per quanto i tuoi regali possano essere «dei pensierini», di fronte ai suoi farai sempre la figura della persona facoltosa. Per quanto tu possa iniziare le tue cene schermendoti con un «ma no, ho cucinato solo due cosine», saranno sempre pasti luculliani al confronto con le sue. Non è cattiveria, è solo che la fanciulla (magra, tonica, longilinea, etc) non è abituata a cucinare per tante persone e tende a sottostimare l'appetito altrui.
C'è poi da considerare che noi viviamo in Piemonte, ove la religione più praticata da tempi immemorabili è senza dubbio l'Antipastesimo. Il settimo giorno, Dio creò l'antipasto. L'antipasto è un'arte, una scienza. Un pranzo o una cena in compagnia che non preveda almeno tre antipasti e la scansione primo - secondo - contorno - dolce - caffè - pussacafè (deformazione gianduiotta: in italiano ammazzacaffè, in francese pousse-café) non è degno di essere definito tale. Si potrà dunque comprendere il mio stupore, quando alla frase di circostanza «spero sia tutto, sono già piena con gli antipasti» mi è stato risposto: «no, c'è anche la torta!». Ho pensato: è uno scherzo. Insomma, se gli anti-pasti si chiamano così è perché vengono prima (dal greco ἀντί/antí, latino ante) del pasto vero e proprio. Non è difficile. Una cena di soli antipasti non è una cena, è un aperitivo.
Morale della favola: ho mangiato poco e, di conseguenza, il poco alcol che ho assunto è andato subito in circolo.

Odio il Natale e non berrò mai più un sorso di Pinot grigio in vita mia.

martedì 18 dicembre 2012

L'elefante

Una poesia, non molto conosciuta, sull'assurdità della guerra. Di tutte le guerre.

«Scavate: troverete le mie ossa
assurde in questo luogo pieno di neve.
Ero stanco del carico e del cammino
e mi mancavano il tepore e l'erba.
Troverete monete ed armi puniche
sepolte dalle valanghe: assurdo, assurdo!
Assurda è la mia storia e la Storia:
che mi importavano Cartagine e Roma?
Ora il mio bell'avorio, nostro orgoglio,
nobile, falcato come la luna,
giace in schegge tra i ciotoli del torrente:
non era fatto per trafiggere usberghi
ma per scavare radici e piacere alle femmine.
Noi combattiamo solo per le femmine,
e saviamente, senza spargere sangue.
Volete la mia storia? È breve.
L'indiano astuto mi ha allettato e domato,
l'egizio m'ha impastoiato e venduto,
il fenicio m'ha ricoperto d'armi
e m'ha imposto una torre sulla groppa.
Assurdo fu che io, torre di carne,
invulnerabile, mite e spaventoso,
costretto fra queste montagne nemiche,
scivolassi sul ghiaccio vostro mai visto.
Per noi, quando si cade, non c'è salvezza.
Un orbo audace m'ha cercato il cuore
a lungo, con la punta della lancia.
A queste cime livide nel tramonto
ho lanciato il mio inutile
barrito moribondo: "Assurdo, assurdo"».

Primo Levi, L'elefante.

lunedì 17 dicembre 2012

Novecento

«A me m'ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, fran, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro, fran.
Non c'è una ragione. Perché proprio in quell'istante? Non si sa. Fran.
Cos'è che succede a un chiodo per farlo decidere che non ne può più? C'ha un'anima, anche lui, poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo col quadro, erano incerti sul da farsi, ne parlavano tutte le sere, da anni, poi hanno deciso una data, un'ora, un minuto, un istante, è quello, fran.
O lo sapevano già dall'inizio, i due, era già tutto combinato, guarda io mollo tutto fra sette anni, per me va bene, okay allora intesi per il 13 maggio, okay, verso le sei, facciamo sei meno un quarto, d'accordo, allora buona notte, 'notte. Sette anni dopo, 13 maggio, sei meno un quarto: fran. Non si capisce.

È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto. Quando cade un quadro. Quando ti svegli, un mattino, e non la ami più. Quando apri il giornale e leggi: è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi: io devo andarmene da qui. Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio».


sabato 15 dicembre 2012

A pensar male si fa peccato

Implacabile e indesiderato come la terza rata dell'IMU, arriva il momento-serietà. Sento qualcosa che mi opprime lo stomaco, e non sono le arancine gentilmente offerte dagli amici palermitani in occasione di santa Lucia (tanti auguri a me). Di cose su cui avrei da dire ce ne sarebbe un mucchio, ma per ovvi motivi di spazio e di tempo devo sceglierne alcune.

Primo. Nella Giornata Mondiale della Pace, la massima autorità della Chiesa Romana Cattolica e Apostolica comunica al mondo che l'eutanasia, l'aborto e le nozze omosessuali sono «una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace». Sic.
Ora, non posso definirmi una detrattrice a priori della persona in questione, ma nemmeno una fan sfegatata. Di Benny Sixteen apprezzo la cultura e la maggiore sobrietà mediatica rispetto al suo predecessore. Si tratta, però, di sola forma. Sui contenuti, molto spesso non potrei essere in maggiore disaccordo.
In un momento del genere, con tutto quello che sta accadendo (dalla guerra in Siria alla peggior crisi economica dalla Seconda Guerra Mondiale, passando per fame, sfruttamenti, gente che si uccide perché non sa più che cosa mettere in tavola ai figli e gente che spara all'impazzata in una scuola elementare e uccide venti bambini), siffatte esternazioni sono un'offesa all'intelligenza e alla dignità umana.
Sarebbero questi, i veri problemi del mondo? Permettere a chi soffre terribilmente di andarsene in pace? Fare sì che donne che compiono una scelta difficilissima non debbano anche affrontare il peso supplementare di essere trattate da assassine? Oppure lasciare che chiunque possa amare chi vuole, fino in fondo, con tutti i diritti e i doveri civili che ne conseguono? Povera illusa, io pensavo che la pace fosse messa a rischio da questa maledetta guerra tra poveri che da un po' di tempo a questa parte conosciamo tutti e che si è andata a sommare a tutte le altre guerre. Nonostante l'età, non imparo proprio a non essere idealista.

Come corollario al punto precedente, Benny Sixteen non si risparmia e ci delizia con la benedizione alla portaparola del Parlamento ugandese, incidentalmente promotrice della riforma dell'attuale legge contro omosessualità e bisessualità. Se la riforma andrà in porto, le pene per questi "reati" andranno dall'ergastolo alla morte. Inutile dire che si è sollevato un vespaio, tanto più che la signora fa parte della genìa di coloro che pretendono di estrapolare passi evangelici per dimostrare che l'amore non eterosessuale è «contro natura» e «va contro il volere di Dio».
C'è chi ha detto: Lucy, sei tu che pensi male, benedire non equivale a dare un appoggio, il contenuto del colloquio non si sa, anche Gesù pranzava coi peccatori ma non per questo peccava con loro. Ora, mettiamoci bene in testa che di Gesù ce n'è stato (per chi ci crede) uno, e sfido chiunque a trovare un individuo in grado di comportarsi con l'esatta rettitudine attribuitagli dai vangeli. La vita di Gesù dev'essere una spinta a comportarsi meglio, non un alibi per le nostre mancanze. Inoltre, cosa che ad alcuni sembra essere sfuggita, Gesù non era il capo di una delle più importanti e note istituzioni del pianeta. Benedetto XVI sì. Piaccia o no, qualunque sua azione ha un significato politico, oltre che religioso. Non può non sapere che un atto del genere può essere agevolmente interpretato come una precisa presa di posizione, soprattutto dopo le sue ultime esternazioni.
Su un'altra cosa, però, vorrei soffermarmi. L'espressione «contro natura», scientificamente e anche logicamente, è una balla colossale. Come fa a essere contro natura una cosa che esiste in natura? C'è, è presente tra gli animali e noi non facciamo eccezione, punto. Un gatto con la testa di Pamela Anderson e tre antennine verdi sulla pancia, casomai, è contro natura, sempre che non lo trovino mai. Se scopriranno che esiste, non sarà contro natura nemmeno lui.
Quanto al famigerato «volere di Dio», una cosa soltanto: BASTA. Sfido chiunque a trovare un passo nei vangeli, uno solo, che condanni l'omosessualità. Ma questi individui hanno letto davvero i vangeli? Troppo comodo dirsi cristiani accontentandosi della predica della domenica. Non sono protestante, ma quella cultura ci ha regalato una grande conquista: libero esame e sola Scriptura. Bisogna leggerli, i testi, studiarli a fondo. Me l'ha insegnato san Gerolamo, che nel lontano 394 scriveva, a proposito di quello che reputava un errore molto grave, parole di una modernità sconcertante: «qualunque cosa dicano la considerano legge di Dio e non si degnano di sapere che cosa intendessero i profeti, che cosa gli apostoli, ma adattano testimonianze bibliche che non c'entrano nulla alle proprie idee, come se fosse una nobile maniera espositiva, e non la peggiore, alterare i contenuti e trascinare a proprio piacimento una Scrittura che recalcitra» (Hier. epist. 53, 7). Troppo comodo giustificare le peggiori nefandezze con il volere di Dio. «Dio lo vuole», Deus vult: ma COSA? Se esiste un Dio, mi piace pensare che voglia l'esatto contrario di quello che dicano loro. Un dio che volesse la discriminazione, l'intolleranza e la morte di persone che vivono diversamente dalle altre non sarebbe un dio, ma un demonio. Oltre a essere, beninteso, una palese contraddizione in termini con la divinità di amore e pace in cui si dice di credere.

Buona Novella, questa sconosciuta...

domenica 9 dicembre 2012

Buoni propositi

L'anno nuovo si avvicina.
Per la verità sono fortemente tentata di tifare Maya, asteroide e compagnia bella, ma mettiamo che anche stavolta non succeda nulla? Sempre meglio premunirsi e stilare, come sempre, una lista di buoni propositi da buttare in caciara entro metà gennaio.

Visto che di buone intenzioni è lastricata la via dell'inferno, quest'anno ho deciso di cambiare: non provo neanche a scrivere cose del tipo «andrò a correre tutti i giorni», «eviterò di friggere le patatine nel burro» o «scriverò trenta pagine di tesi al giorno» (per la gioia del mio relatore, il quale già sostiene che io scriva troppo). Complice l'approssimarsi del compleanno di Jesus Christ, la mia lista per il 2013 sarà una via di mezzo tra una letterina a Babbo Natale e una wishlist zeppa di cose assolutamente irrealizzabili, ma che in fondo ho sempre sognato.
Allora, cominciamo. Per Natale e l'anno venturo vorrei:
- avere improvvisamente una voce bellissima e cantare in modo meravigliosamente sexy. Una di quelle voci che quando le senti non puoi invidiare chi le possiede, ma solo cedere le armi. La voce di Antonella Ruggiero quando cantava Solo tu con i Matia Bazar, per intenderci.
- svegliarmi e avere le gambe più lunghe di 10 cm. Mia madre mi adorerebbe, perché non l'assillerei più chiedendole di accorciarmi tutti i pantaloni. Il mio beneamato mi adorerebbe, perché non mi lamenterei più di essere una puffa. Idem con patate per i miei amici. In poche parole, mi adorerebbero tutti e alla mia autostima gioverebbe non poco.
- inventare e brevettare una cucina autopulente. Risparmierei tempo e farei la felicità delle massaie (e dei massai, perché no?) di tutto il mondo, oltre che un pacco di soldi.
- discutere la tesi in maniera strepitosa, sentirmi dire «dottoressa, 110 punti sono pochi per il suo lavoro, in suo onore abbiamo introdotto 5 punti supplementari»!», laurearmi con 115 e lode, dignità di stampa e trovare subito qualcuno che sia effettivamente disposto a cacciare la grana e pubblicare le mie sudate carte. Il bacio accademico lo lascio a qualcun altro, tanto in università da noi sono tutti bruttini.
- (segue dal punto precedente) festeggiare degnamente la laurea magistrale: folle oceaniche che inneggiano al mio nome, mio padre che si dimentica di detestarmi perché ho scelto di non laurearmi sei mesi in anticipo con l'acqua alla gola, un paio di legioni romane che mi portano in trionfo urlando hominem te memento, memento mori («ricordati che sei umana, ricordati che devi morire») e io che rispondo «sì, MO' ME LO SEGNO», Giulio Cesare che risorge per l'occasione, Pericle anche. Per non parlare di Alessandro Magno, che mi sussurra in greco antico che Rossane non è nessuna in confronto a me e col quale trascorro una fugace ma intensissima notte d'amòr. Risorge anche Freddie Mercury, i R.E.M. si riuniscono, ma sì mettiamoci in mezzo anche Pavarotti: tutti insieme fanno un concerto indimenticabile nel giardino di casa dei miei e io, che ho nel frattempo acquisito la voce di Antonella Ruggiero, canto con loro.
- aprire una scuola, usando i soldi guadagnati col brevetto della cucina autopulente. Ovviamente s'iscrivono ventordicimila persone in un batter d'occhio e ho il lavoro assicurato per i secoli dei secoli.
- inventare una macchina del tempo, andare nel Trecento e chiedere a Dante che cosa diamine si fosse fumato.
- avere un'intuizione geniale, scrivere uno studio eccezionale e beccarmi in men che non si dica una cattedra nella mia materia.
- avere un angelo che tutte le mattine mi porta la colazione a letto, mi massaggia i piedi e il collo, mi racconta come vanno le cose dall'altra parte (in latino, così mi esercito). Visto che è un angelo avrà una voce celestiale, per cui dovrà anche cantare per me: mi raccomando, però, Symbolum '77, qualsiasi altra canzone di chiesa e l'intero repertorio di Céline Dion sono off limits, altrimenti diventa tutto troppo prevedibile.
- fare un colpo di Stato in Vaticano e diventare PAPA. Sbattere fuori dalla Chiesa i pedofili, i ladri, i mafiosi e i criminali. Aprire al sacerdozio e all'episcopato femminile, alle coppie di fatto, al mondo LGBT, abolire l'obbligo del celibato ecclesiastico e cambiare dall'interno quel che non va, invece di prendermela con chi non fa nulla di male per insignificanti problemi autoinventati.
- da papa, ordinare un restyling delle divise delle Guardie Svizzere. Comprarmi la Svizzera. Comprarmi tutte le fabbriche di cioccolato della Svizzera. Prometto però che userei i proventi della vendita del cioccolato per fini etici.
- sposarmi, senza però dover presentare il mio beneamato a nessuno. Niente pranzo di nozze con millanta miliardi di parenti miei e suoi, niente strascico di mattina che è la quintessenza della tamarrìa, niente soldi da spendere in cazzi inutili come il suddetto pranzo, le partecipazioni e le bomboniere.
- abolire i suoceri. Siete i genitori di vostro figlio, ok, ma che nessuno venga a rompermi le scatole su come vivo o che cosa faccio con lui. MAI!

mercoledì 5 dicembre 2012

Senza titolo #2

Bianco, come chiamate le morti sul lavoro.
Rosso, come il mio conto dopo essermi pagata gli studi.
Rosa, come il fiocco che vorrei appendere senza paura di restare a casa.
Nero, come l'unico lavoro che mi viene proposto.
Verde, come l'ambiente che ogni giorno distruggete.

La mia rabbia ha molti colori...

Coffee!


No words.

sabato 1 dicembre 2012

Piemontesi, falsi e cortesi

Primo Dicembre.
Apro gli occhi sul mondo e:
- Mi ricordo che NON devo andare a lavorare perché una cliente mi ha dato buca con un sms ieri sera alle 23:37. Ma porca...! Di sicuro lo sapevi già prima, quindi perché accidenti ti sei svegliata a mezzanotte meno venti a dirmi che è completamente inutile che mi sbatta per 100 km per raggiungerti?
- La lampadina della cucina è fulminata da ieri sera e Coinqui GL era troppo impegnata col suo nuovo moroso per cambiarla. Certo. Se la mettiamo su questo piano, col cavolo che la cambio io. Per me, lunedì possiamo essere ancora al buio.
- Faccio finta di tirare un calcetto scherzoso al mio fidanzato e lui, serissimo, mi stende con una mossa di Krav Maga che mi lascia con uno stinco in meno. Senti, pezzo di deficiente, peso cinquanta chili e tu venti in più: mettiti bene in testa che io non riesco a farti male e che se anche ci riuscissi non lo farei comunque, e le tue mossettine da agente del Mossad infilatele su per dove puoi immaginare!



Ecco, se avessi ascoltato il mio istinto avrei risposto più o meno questo.
Si ha un bel dire che i piemontesi siano «falsi e cortesi», ma guardiamo le cose da un'altra prospettiva: se dicessimo quel che davvero pensiamo, finiremmo per litigare con mezzo mondo. E la mia adorata Lucy Van Pelt, alla gente, sta simpatica solo sulle strisce dei Peanuts.


venerdì 23 novembre 2012

Bellezza in bicicletta

Trenitalia m'informa che un'azienda partner ha prodotto una prestigggggiosa bici pieghevole che viaggia gratis su tutti i treni e che potrò acquistare a un prezzo promozionale in quanto socia Cartafreccia (tessera fatta unicamente per andare a Firenze senza svenarmi). Vado a vedere i dettagli sul sito, per curiosità, e trovo questa frase: «La Link P9 "Frecciarossa" ha un prezzo di 590 euro (IVA inclusa), riservato ai soci del programma CartaFRECCIA (a fronte di un prezzo base intero di vendita al pubblico dello stesso modello con i medesimi accessori di 902 euro)».
WTF??
Da Decathlon una bici pieghevole si compra con 150 euro.
Ora, signori di Trenitalia, ripetete con me: voi siete furbi, ma io non sono scema.

giovedì 22 novembre 2012

#ioportoipantalonirosa

«Frocio», «ricchione», «finocchio», e altre etichette di questo genere.
Quante volte le sentiamo in una giornata?

Molti dei miei più cari amici sono omosessuali. Alcuni dichiarati, la maggior parte no. Quand'ero più piccola mi chiedevo, un po' ingenuamente, di che cosa si vergognassero. Poi sono cresciuta e ho iniziato a riconoscere la paura di ricevere uno sguardo colpevolizzante, un commento malevolo, un'offesa verbale o addirittura fisica. Il timore di "deludere" i propri familiari, certo, ma anche il terrore di avere problemi sul lavoro. Come se essere omosessuali fosse una colpa.

Un ragazzo di quindici anni si è impiccato. Quindici. Al posto suo potrebbe esserci, a seconda della nostra età, un nostro fratello, o amico, un nostro allievo, un nostro figlio. La pena che si portava nel cuore la conosce solo lui, e non sono nessuno per provare a descriverla anche solo lontanamente. Ma proviamo, anche solo per un attimo, a immaginare. 

Perché è dovuto accadere? Qualcuno potrà dire «non doveva uccidersi, doveva lottare», ma è troppo facile. Beati coloro che sono sempre sicuri di sé stessi, che ignorano che cosa può accadere in un attimo di disperazione: basta un niente, un'impennata dell'anima, e d'improvviso tutto salta.

Chi dovrà (dovrebbe) rispondere per la morte di questo ragazzo, che purtroppo non è il primo e temo non sarà l'ultimo a uccidersi?

Sicuramente quelli che «l'omosessualità è contro natura» e altre idiozie parascientifiche. Trovatemi un testo scientifico, uno solo, che provi una tesi delirante di questo genere.
Quelli che sono troppo beceri, ignoranti e cattivi per lasciare in pace chi è "colpevole" di vivere in un modo che dà loro fastidio. Ma farvi una vita vostra, no?
Ma anche quelli, molto più ipocriti e se possibile ancor più schifosi, che «no, non sono omofobo, non mi danno nessun fastidio, basta che non vengano a rompere le palle a me» (evidentemente, costoro sono parenti stretti di quelli che «non sono razzista, basta che se ne stiano a casa loro»). Dico, ma vi sentite? Pulitevi la coscienza finché vi pare, tanto per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti.
Quelli che «ma cosa t'importa dei loro diritti, Lucy? Tu mica sei lesbica». Sai mai che non sia una malattia contagiosa...!
Tutti costoro, questi soggetti che mi rifiuto di definire persone, mi fanno vergognare di me stessa, perché di fronte alla loro miseria umana non riesco a non pensare per un attimo: ma vi ammazzaste voi, carogne, tutti quanti.

Non si può morire a quindici anni. Non si può morire così.

martedì 20 novembre 2012

Gentile presidente...


Gentile presidente dell'Uruguay,
ho letto con un soprassalto d'indignazione che dal 2009, anno in cui fu eletto presidente, lei devolve in beneficenza il 90% dello stipendio mensile di 12 000 $, perché – ha dichiarato – un politico dovrebbe vivere come la maggioranza dei propri concittadini.
Che imbarazzo, presidente. Che mancanza di decoro istituzionale. Ho tirato un sospiro di sollievo solo quando ho scoperto che aveva almeno l'auto blu. Ma si tratta di un Maggiolino tutto scassato, in effetti blu, che lei guida personalmente.
Non si vergogna di avere lasciato la residenza presidenziale di Montevideo agli sfrattati per trasferirsi nella casetta di campagna di sua moglie? E la smetta di accampare scuse, dicendo che «le cose più belle della vita sono avere degli amici, godere moderatamente del cibo e molto della natura».
Sono così arrabbiato con lei che avrei voglia di denunciarla per comportamento antipolitico al dottor Giuliano Amato. Anche lui ama molto la natura: quando era consigliere di Craxi lo chiamavano "l'uomo che sussurrava ai cinghiali". Però, a differenza sua, ha il coraggio di denunciare i problemi veri. «Un trentenne impossibilitato a ricandidarsi dopo due legislature, cioè a 40 anni, che cosa dovrebbe fare mentre aspetta di compiere i 65?» si è chiesto in un'intervista, interpretando l'ansia di un Paese intero per la sorte di quei negletti, qualora malauguratamente passasse il limite dei due mandati parlamentari.
Amato ha saggiamente proposto di garantire un'indennità agli onorevoli disoccupati. Cosa aspetta, presidente Pepe, a seguirne l'esempio? Ma soprattutto, visto che è di origini piemontesi, cosa aspetta a candidarsi alle prossime elezioni italiane nel collegio Sudamerica contro Scilipoti?
Le assicuro che io e alcuni miei amici – gli spettatori di Che tempo che fa – verremmo a votarla anche a nuoto. Buonasera.

Massimo Gramellini, Che tempo che fa del lunedì, 19/11/2012.

mercoledì 14 novembre 2012

Carpe diem, forse


Prendo spunto da un post di PiccolaStella (che potete leggere qui) sul rapporto con il tempo e ne approfitto per risponderle.

Quando si dice che siamo tutti un po' oraziani, non si va molto lontani dalla verità. Lo siamo in maniera parziale, però: impegnati come siamo a carpere diem, o almeno a provarci, dimentichiamo il resto dell'ode. La riporto per intero, insieme a una mia proposta di traduzione:

Tu ne quæsieris – scire nefas – quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati,
seu plures hiemes, seu tribuit Iuppiter ultimam,
quæ nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
ætas: carpe diem, quam minimum credula postero.


Non chiederti – è peccato saperlo  qual fine a me, quale a te
gli dèi abbiano dato, Leuconoe, e non mettere alla prova
gli oroscopi di Babilonia. Assai meglio sopportare tutto ciò che sarà,
che molti inverni abbia concesso Giove, o che sia l'ultimo
questo che ora contro gli scogli fiacca il mare
Tirreno: sii saggia, mesci il vino, e nel breve tempo
recidi una lunga speranza. Mentre parliamo, già fugge il tempo
crudele: afferra l'attimo, non pensare affatto al domani.


Afferrare il presente vorrebbe dire liberarsi dalla schiavitù del domani, invece finiamo per fare esattamente il contrario. Nei secoli stiamo imparando a fruire dell'oggi, a godere del momento, ma nessuno ci ha ancora insegnato a mettere in pratica la rinuncia alla preoccupazione per il futuro. Forse riusciremmo a farlo soltanto se tenessimo a mente anche quanto dice Seneca nel de brevitate vitæ: «non abbiamo poco tempo, ma ne perdiamo molto».
La cultura romana sentiva in maniera molto urgente il problema del tempo a disposizione dell'uomo. Catullo ha appena vent'anni, è poco più che un ragazzo, quando scrive: «il sole può tramontare e rinascere; a noi, una volta che sia tramontata una breve luce, resta da dormire un'unica eterna notte». Ha potenzialmente tutta la vita davanti, eppure sente di non avere tempo. Come se in qualche modo presentisse che la morte arriverà per lui fin troppo presto.
Forse, se anche noi tenessimo a mente che tutto può finire in un istante, riusciremmo davvero a vivere l'oggi. Lasceremmo andare il passato e non ci preoccuperemmo del futuro. Avremmo qualche motivo in meno per avercela con il nostro prossimo, anche.

Sotto una piccola stella

Chiedo scusa al caso se lo chiamo necessità.
Chiedo scusa alla necessità se tuttavia mi sbaglio.
Non si arrabbi la felicità se la prendo per mia.
Mi perdonino i morti se ardono appena nella mia memoria.
Chiedo scusa al tempo per tutto il mondo che mi sfugge a ogni istante.
Chiedo scusa al vecchio amore se do la precedenza al nuovo.
Perdonatemi, guerre lontane, se porto fiori a casa.
Perdonatemi, ferite aperte, se mi pungo un dito.
Chiedo scusa a chi grida dagli abissi per il disco col minuetto.
Chiedo scusa alla gente nelle stazioni se dormo alle cinque del mattino.
Perdonami, speranza braccata, se a volte rido.
Perdonatemi, deserti, se non corro con un cucchiaio d'acqua.
E tu, falcone, da anni lo stesso, nella stessa gabbia,
immobile, con lo sguardo fisso sempre nello stesso punto,
assolvimi, anche se tu fossi un uccello impagliato.
Chiedo scusa all'albero abbattuto per le quattro gambe del tavolo.
Chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte.
Verità, non prestarmi troppa attenzione.
Serietà, sii magnanima con me.
Sopporta, mistero dell'esistenza, se tiro via fili dal tuo strascico.
Non accusarmi, anima, se ti possiedo di rado.
Chiedo scusa al tutto se non posso essere ovunque.
Chiedo scusa a tutti se non so essere ognuno e ognuna.
So che finché vivo niente mi giustifica,
perché io stessa mi sono d'ostacolo.
Non avermene, lingua, se prendo in prestito parole patetiche,
e poi fatico per farle sembrare leggere.

Wislawa Szymborska, Sotto una piccola stella.

[tra le lingue che conosco non c'è il polacco, ma non ho trovato il nome dell'autore di questa traduzione... se qualcuno sa chi è, me lo faccia sapere]

domenica 11 novembre 2012

Tra il dire e il fare

Non so perché, ma mi è appena tornato in mente il particolare impiego che il verbo «farsi» ha nei dialetti dello Stretto. Non vuol dire «drogarsi», come sentivo dire nei film quand'ero piccola, e neppure si usa insieme a un nome di persona per indicare un commercio carnale, una conoscenza biblica, eccetera. Nulla di tutto questo: nel profondo Sud, «farsi» indica un cambiamento di stato.
Ad esempio: in Magna Grecia, «i miei figli si sono fatti Wind» vale «sono passati a Wind» (marca a caso, non pubblicizzo un bel niente, anche perché nessuno mi paga per farlo).
Il caso più tipico è «si sono fatti fidanzati», laddove in italiano standard si direbbe semplicemente «si sono fidanzati». Per la verità, l'espressione nasce dalla traduzione letterale di «si fìciaru ziti»; il problema è che «ziti» è solo sostantivo, mentre «fidanzati» è anche participio passato.
L'esempio più bello, però, è del siciliano. Non serve aver letto l'opera omnia di Camilleri per imbattersi nella forma «mi sono fatto persuaso». E si può essere puristi della lingua finché si vuole, ma nessuno mi venga a dire che «mi sono convinto» ha la medesima pregnanza. Se ti sei convinto, fai vedere la cosa come ormai conclusa, una volta per tutte; se ti sei fatto persuaso, fai vedere piuttosto che ora hai una certa idea ma prima non l'avevi, o che non ne eri del tutto convinto... insomma, che hai fatto lo sforzo di rifletterci. Che ci hai pensato.
E sarà anche una sottigliezza, ma scusate se è poco.

Parole di altri


Il bello della scrittura è che mette in comunicazione persone che altrimenti non si conoscerebbero mai. Una forma di globalizzazione esiste già da sempre, ed è quella che unisce esperienze, condizioni e epoche diversissime. Quello che io penso è quello che altri hanno detto, scritto, cantato o recitato prima di me. Quello che io dirò o scriverò sarà fatto proprio da altri che verranno dopo, e così via... è il lasciapassare per l'immortalità, in un certo senso. E anche un modo per essere un po' meno soli al mondo. Per questo ho un rispetto profondo per le parole degli altri. Le ascolto, le seziono, le ricompongo, alcune le faccio mie. In ogni caso, le medito. Attaccherei a un muro i patiti degli aforismi della domenica, quelli che tirano giù dal web citazioni di opere che non hanno mai sentito neppure nominare solo per fare gli intellettualoidi e darsi un tono. Che bisogno hai? Piuttosto di' due cose soltanto, ma che siano state vissute, assorbite.
Tra le parole altrui che più mi hanno segnata non ci sono solo passi di libri, ma anche versi di canzoni (anche di cantanti che non mi piacciono, tipo Zampaglione), frasi tratte da film, battute fulminanti di professori del liceo che mi hanno fatto ridere o riflettere. Ne metto qui alcune, per onorarle.

«Io non gli espressi mai il mio amore a parole; ma se gli sguardi hanno un linguaggio, il più grande idiota avrebbe capito che avevo perso la testa».
Emily Brontë, Cime tempestose

«Non sentirti in colpa se non sai cosa vuoi fare della tua vita. Le persone più interessanti che conosco a ventidue anni non sapevano che fare della loro vita. I quarantenni più interessanti che conosco ancora non lo sanno».
The Big Kahuna

«Ho realizzato che il tempo è maledetto e si diverte a passare per vederci cambiare. Tu invece, mamma, resti uguale, anzi mi sembri anche più bella, sono sicuro che magari tra cent'anni volerai su una stella per brillare sulla Terra».
Tiromancino, Quasi quaranta

«Sarebbe bello una sera poterti riaccompagnare: accompagnarti per certi angoli del presente, che fortunatamente diventeranno curve nella memoria, quando domani ci accorgeremo che non ritorna mai più niente, ma finalmente accetteremo il fatto come una vittoria».
Francesco De Gregori, Viaggi e miraggi

«Timeo Danaos et dona ferentes».
(ovvero, la versione latina di «fidarsi è bene, non fidarsi è meglio»)
Publio Virgilio Marone, Eneide

«Non dire mai: di quest'acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata».
Michela Murgia, Accabadora

«Chi te l'ha detto? Te l'ha detto il gatto?».
Professor B., seconda liceo classico

«L'uomo è il capo, ma la donna è il collo».
My big fat greek wedding

«Per altre vie, con le mani, le mie, cerco le tue, cerco noi due».
Pierangelo Bertoli, Spunta la luna dal monte

Tutta Saffo, tutto Omero, quasi tutto Marziale, molto di Esiodo e quel che resta di Petronio.

«Cos'è una storia non seria, si scopa ridendo?!».
Santa Maradona

«Venter plenus facile de ieiunio disputat».
(la versione tardoantica e monastica di «sono tutti sodomiti col deretano altrui»)
Sofronio Eusebio Gerolamo, epistola LVIII

«Rosa fresca aulentis[s]ima ch'apari inver' la state, le donne ti disiano, pulzell'e maritate: tràgemi d'este focora, se t'este a bolontate;  per te non ajo abento notte e dia, penzando pur di voi, madonna mia».
Cielo d'Alcamo, Rosa fresca aulentissima

«Ho lasciato la mancia al boia, sai quanto mi servisse un orologio Bulova se il tempo lo scandiva la mia tosse; tanto che poi in cambio ottenni acqua, e un sorriso che pensai fosse un rischio persino per lui».
Samuele Bersani, Occhiali rotti

«Entra e fatti un bagno caldo: c'è un accappatoio azzurro, fuori piove un mondo freddo».
Paolo Conte, Via con me

«Ragazzi, lo so che siete stanchi, è la sesta ora anche per me, ma insomma: sempre meglio che lavorare all'Italsider».
Professor P., terza liceo classico

«La cultura è come la marmellata sul pane: meno ne hai, più la spalmi».
Sempre lui

giovedì 8 novembre 2012

Marco Tullio e dintorni

«Se devo interpretare il senso spirituale delle sue parole, interpreterei "che palle!"».
Sive: come sopravvivere a un relatore intenzionato a demolire trecento pagine di tesi.

Per carità, in certe cose ha anche ragione, ad esempio quando dice che dovrei essere più stringata, mettere qualche punto fermo in più e qualche punto e virgola in meno. Il fatto è che chiedere a me di essere meno prolissa è come chiedere a Hannibal Lecter di diventare vegano.
Almeno, così pensavo fino a qualche ora fa. Navigando (e va bene, cazzeggiando) su Internet ho scovato una perla dedicata al padre spirituale di tutti i prolissi, al re dei periodi di venti righe con ventordicimila subordinate e un milione d'incidentali: Cicerone. Dapprima mi sono fatta una risata, poi sono inorridita nella consapevolezza di essere stata contagiata dalla stessa malattia: 


martedì 6 novembre 2012

Piazza Massaua

Non pensavo esistessero ancora vecchietti che, di fronte a due occhi neri e a una faccia non esattamente nordica, rispondono alle richieste d'informazioni con la frase «non sono di qui», con uno spiccato accento torinese. Peccato che il mio accento fosse ancor più marcatamente torinese del suo nel ribattere «grazie mille, molto gentile... lei non è di qui? E io sono Laura Antonelli, neh». 

lunedì 5 novembre 2012

Lista della spesa

E il formaggio no perché il colesterolo.
Pane pizza e biscotti no perché le farine raffinate e i glucidi.
La carne rossa non sia mai perché il cancro al colon e poi ci vuole tantissima acqua.
Le uova no perché il fegato.
Il pollo no perché l'allevamento in batteria.
Vino birra e alcolici in genere no perché praticamente sono suicidio.
Zucchero no perché il diabete e altre varie malattie.
Broccoli e cavolfiori sì ma attenzione, gonfiano.
La frutta sì ma occhio perché fermenta.
Le farine integrali no perché le bucce piene di sostanze.
Polenta e popcorn zero perché il mais è OGM.
I pomodori nichel a manetta.
Frutta o verdura non di stagione no perché ammazzi il pianeta.
Latte e latticini in genere no perché i grassi animali.
Ma cosa cacchio mangio?

domenica 4 novembre 2012

Una normale domenica sera

Lucy e la voglia di staccare la testa al fidanzato che perde l'ultimo treno e le dà clamorosamente buca.

mercoledì 31 ottobre 2012

Choosy: postilla


Norman aveva ventisette anni quando, nel 2010, si buttò dal tetto della facoltà di Lettere dell'università di Palermo. Era un dottorando e per mantenersi faceva il bagnino a venti euro al giorno. Voi mandereste a cuor leggero i vostri figli a lavorare per quella cifra?
Il padre di Norman, oggi, presenta un esposto contro il ministro Fornero che con le proprie esternazioni, sostiene, «offende un'intera generazione e uccide nuovamente mio figlio». Gesto nobile. Ma ditemi, genitori e adulti in generale: è proprio necessario buttarsi da un tetto per ottenere il vostro appoggio? Quanti Norman devono esserci, ancora, prima che i vostri figli abbiano la sensazione e la consapevolezza di non essere stati lasciati soli a combattere contro un mostro?
Al posto di Norman poteva esserci uno qualsiasi di noi. Agite di conseguenza. 

martedì 23 ottobre 2012

Choosy a chi?

Tra una minchiata e l'altra, non posso più rimandare un momento-serietà.
Mi unisco anch'io al coro di chi il ministro Fornero ha apostrofato come «choosy», americanismo attestato dalla seconda metà dell'Ottocento, che si può tradurre all'incirca come «schizzinoso»; Dictionary.com specifica: «hard to please, particular; fastidious, especially in making a selection». Il ministro, in poche parole, ha detto: ragazzi, nella scelta del lavoro non dovete essere choosy. Una volta si sarebbe detto «avere la puzza sotto il naso», «fare i preziosi» o cose del genere.
Ora, va bene tutto, va bene il rispetto che si deve portare alle persone anziane (così, almeno, ci hanno insegnato i nostri genitori), ma qui si sta un filino esagerando. A furia di bofonchiare, negli anni '80 e '90, che c'erano «lavori che i giovani italiani non vogliono più fare», si sono convinti che la stessa cosa valesse negli anni Zero e valga negli anni Dieci. Una parte di me vorrebbe sperare che il ministro non abbia preteso di fare un discorso generale, bensì relativo a una minoranza di fanciullini viziati di cui non si può, né si vuole, negare l'esistenza; e la signora ha provato a correggere il tiro in tal senso, dicendo «i giovani italiani oggi sono disposti a prendere qualunque lavoro, tanto è vero che sono in condizioni di precarietà... non sono nelle condizioni di essere schizzinosi». Sarà... ma dopo anni in cui chi avrebbe dovuto rappresentarci tirava il sasso e nascondeva la mano, se ne usciva con battute sconcertanti e poi si trincerava dietro un «sono stato frainteso», una persona che non ha neppure l'alibi dell'elezione e della rappresentatività può permettersi ancor meno un errore del genere.
Choosy, dicevamo. Probabilmente è solo che il ministro ha a che fare con ambienti privilegiati, con figli-dei-figli e amici-degli-amici che possono permettersi una certa selettività. Forse è soltanto slegata dal Paese reale, un po' come nella vecchia battuta s'ils n'ont plus de pain, qu'ils mangent de la brioche. Nel mio piccolo, avrò allora la presunzione di cercare di aiutarla a capire qualcosa di più, di questo Paese e dei suoi sventurati abitanti.

C'è la mia amica C., laureanda in Medievistica: ha il sogno di fare la scrittrice e ha già vinto vari concorsi e premi letterari, ma non disdegnerebbe neppure d'insegnare; nel frattempo, per non pesare su mamma e papà, lavora in un pub dalle sei di sera alle quattro del mattino, venti notti al mese, per cinque euro all'ora. Sarà choosy?

C'è il mio amico L., che studia Informatica: ha fatto mille lavori, dal rappresentante porta a porta al tuttofare in una galleria d'arte; adesso, per non rinunciare al sogno di andare a vivere con la sua donna, passa le sue mattinate in un call center per poche centinaia di euro al mese. Anche lui, è choosy?

Ci sono io, Lucy, specializzanda in Filologia Classica col massimo dei voti. La mia università, per i miei genitori, è stata a costo zero. Mi mantengo da sola da quando avevo diciotto anni, ho preso tutte le borse di studio per merito possibili e immaginabili, ho fatto la babysitter, ho insegnato inglese e francese per due lire. L'estate scorsa avevo trovato uno stage di tre mesi in una filiale Ina Assitalia: per 45 ore alla settimana mi hanno proposto 100 euro mensili. Cento. Non mi ci sarei pagata neanche i trasporti. E scusate tanto, ma allora continuo a dare lezioni private di greco, latino, letteratura, lingue straniere, storia, chimica e fisica: per quattro soldi, certo, ché se anche abbassi le tariffe all'osso c'è sempre qualcuno più disperato di te che chiede ancora meno (e per una questione di equità, altrimenti in tempi di crisi un affiancamento all'insegnamento scolastico se lo possono permettere solo i ricchi), ma almeno con quei quattro soldi riesco a pagarmi un posto in una camera doppia e a vivere senza chiedere nulla ai miei. Il mio sogno è aprire una scuola, di questo passo non lo realizzerò nemmeno tra tre vite.

Il posto fisso è monotono? Se è per questo, anche il contratto a tempo determinato sta diventando pura fantascienza. Assumere costa troppo, dicono. Ferie, malattie, permessi, riposi? Che cosa sono? Qui vige un molto più pratico «chi non lavora, non mangia». Per ora va così. Si sopravvive. Certo è, però, che soldi da parte non ce ne mettiamo. Chissà come faremo quando avremo l'ardire, l'incoscienza e l'egoismo di volerci creare una famiglia tutta nostra. Non lo faremo, semplice, oppure ce ne andremo all'estero beccandoci gli insulti di chi ci darà degli ingrati verso la madrepatria (o terra matrigna?) e tenendoci il senso di colpa per aver abbandonato il nostro Paese.
Per questi motivi, le parole del ministro danno la sgradevole impressione di una battuta infelice nella migliore delle ipotesi, di un'umiliante beffa nella peggiore. Quando ho letto le sue esternazioni, il mio primo pensiero è stato in dialetto romanesco: non c'è lingua al mondo che dia più soddisfazione nell'esprimere il proprio sdegno, la propria ira, il proprio disappunto. E allora lasciatemelo dire: ah sora Fornè, choosy ce sarai te e tutta la palazzina tua.

domenica 21 ottobre 2012

Frammenti di un discorso amoroso-multiculturale

Parlando con amici provenienti da vari Paesi del mondo e stabilitisi in questo benedetto, assurdo Bel Paese, mi sono resa conto che alcuni fanno fatica a capire fino in fondo le parole delle loro ragazze. Non che sia un problema di comprensione dell'italiano, tutt'altro; il più delle volte, il problema è il non detto, il dato a intendere, il lasciato capire.
In estrema sintesi: ciò di cui non ci rendiamo conto è che l'italiano è, molto più di tante altre, una lingua ambigua; né potrebbe essere altrimenti, visto che il susseguirsi di tante potenze sul nostro territorio nazionale ha comportato la creazione di un lessico multiforme, versatile, che potesse velocemente adattarsi e rimanere valido a ogni cambio di dominatore. Francia o Spagna purché se magna, si diceva una volta (e Mameli notava, in una delle strofe dell'inno che nessuno canta mai: «noi siamo da secoli calpesti e derisi perché non siam popolo, perché siam divisi»). Il che non vuol dire che gli italiani, o in questo caso le italiane, siano necessariamente persone ambigue; ma, piuttosto, che ambigua è la lingua che storicamente si è formata e con cui ci ritroviamo a comunicare. Ciò che non dicono le parole va cercato nel tono, nella postura, nello sguardo... o, peggio ancora, nel contesto.
[Deriverà forse da questo la perversione dei prof di latino e greco per cui ogni parola ha 10580 possibili significati e quello giusto «dipende dal contesto» sempre e comunque?]
Poi certo, sta scritto «il vostro parlare sia sì sì, no no, il più è del diavolo», e infatti quando una donna dice sì vuol dire sì e quando dice no vuol dire no, e chi sostiene il contrario peste lo colga; il guaio è che oltre a sì e no ci sono molte altre espressioni... servirebbe un Dizionario della Donna Italica.

Allora, mettiamo in chiaro un paio di cose:
Sì = sì
No = no
[e fin qui tutto bene]
Forse = no
Mi dispiace = ti dispiacerà
Hai ragione tu = come no, ti piacerebbe
Fai come vuoi = la decisione dovrebbe essere ovvia
Devo pensarci = ho già deciso ma sto prendendo tempo
Sono ingrassata? = NO!
Come mi sta questo vestito? = dimmi che sono bella!
No, caro, la tua sveglia non mi dà fastidio = se la sento suonare ancora una volta te la butto, quella ferraglia
Certo che mi va bene di uscire con te e tuo cugino/il tuo amico/etc = ma quel rompiscatole, farsi una vita? No?
Non c'è fretta di conoscere i miei = ti sto solo dando tempo per venire a casa dei miei di tua volontà, non costringermi a invitarli da noi
Non ho fretta di conoscere i tuoi = sto aspettando che sia tu a chiedermelo
Carina quella, chi è? = chi accidenti è quella donna di facili costumi, come ha osato salutarti, che cosa vuole dalla tua vita e soprattutto non è una tua ex vero?
Certo, amore, andiamo all'Outlet del Kasalingo domenica pomeriggio = passare la domenica in negozi per la casa è tristissimo e va contro i miei principi... e porca miseria, l'unico casalingo disperato in tutto il Sistema Solare dovevo beccarlo io?
Esci pure coi tuoi amici stasera = sarebbe opportuno che tu restassi qui a ottemperare ai tuoi doveri di concubino, ma i tuoi amici mi stanno fissando con fare inquisitorio e non posso esprimermi con la dovuta franchezza.

E mi parli di te (... musica, maestro!)

Anche se nessuno dei miei venticinque lettori (espressione manzoniana, ma ho il sospetto che su questo blog siano ancora meno) ne sentiva la mancanza, ho deciso d'inaugurare una rubrica: il momento musicale. Quando scoverò qualche perla, di autori famosi o di artisti sconosciuti ai più, le dedicherò un post. Se la canzone dovesse piacere a qualcuno, avrò compiuto la mia buona azione quotidiana; e se invece non interessasse? E chi se ne frega, scrivo comunque, tanto qui comando io. =)

Ho appena scoperto un brano molto bello. Arrivo un po' in ritardo, per la verità: una breve ricerchina internettara mi fa sapere che è in rotazione radiofonica dallo scorso 27 aprile... diamine, possibile che non l'abbia mai beccato?
Tenendo per me i miei moti di sconforto, la canzone si chiama E mi parli di te; è il frutto di una collaborazione tra Marina Rei, una delle mie artiste preferite, e Pierpaolo Capovilla, cantante del Teatro degli Orrori, di cui la stessa Rei ha dichiarato: «Grazie alla poetica delle sue parole ha donato al brano un carattere narrativo profondo, che svela le ipocrisie quotidiane del "maschilismo narcisistico", che fin troppo spesso domina quel particolarissimo rapporto sociale che chiamiamo amore».

Prima o poi, ci si passa tutte. Ci s'innamora dell'uomo tanto affascinante, o tanto autoreferenziale, da dipendere totalmente dall'ammirazione altrui. L'uomo che si mette al centro del mondo e del rapporto di coppia, soprattutto se ha qualche anno più di noi e pensa di aver vissuto più esperienze, di avere più cose da raccontare. Lui parla, parla, parla. Sempre di sé. Anche un «come stai» di facciata è chiedere troppo. L'altra persona esiste solo nella misura in cui è un satellite che gli gira intorno.

E va bene, lo ammetto, forse c'è uno scrupolo di autobiografismo nel mio amare questa canzone. Chi volesse ascoltarla, la trova qui.


E mi parli di te
degli anni che passano e non ritornano mai
mi racconti le tue spacconate e le piccole glorie
mi sembri Dylan Thomas, una vecchia rockstar
sorridente, infelice
che non dice mai
mai niente, mai niente
della sua solitudine
te la leggo negli occhi
gli stessi occhi che a volte piangono
non sanno neanche perché
e si vedono anche le ferite dell’amore
e la voglia di sparire e di non tornare più


E le donne che ti guardano

e ti vorrebbero
si vedono
le bugie, così tante bugie
e mi parli di te
degli anni che passano e non ritornano mai
ma non dici mai
mai niente, mai niente
della tua solitudine
te la leggo negli occhi
gli stessi occhi che a volte piangono
e non sai neanche perché
e si vedono anche le ferite dell’amore
e la malinconia
di una vita vissuta senza malinconie
tanto per viverla
e la voglia di sparire
e di non tornare più


Il tuo amore che ti vuole bene

e che ancora crede in te, crede in te
e mi parli di te
mi parli sempre soltanto e solamente di te
ti sei mai chiesto perché
te lo dico in confidenza
ti sei mai chiesto perché
io non ti amo più?
Te lo dico in confidenza
io non ti amo più.

lunedì 15 ottobre 2012

Il paradosso dell'aula

Mi sono presa un po' di tempo per riflettere su un articolo uscito ieri sul sito del giornale di Augusta Taurinorum. L'argomento era Palazzo Gnu, l'ecomostro costruito già con muschi e licheni incorporati, a breve distanza dal Po, per ospitare batteri, virus, vibrioni del colera e, se resta spazio, studenti delle facoltà umanistiche.
Eh già, lo spazio. Pare facile. Gestione ottimale delle risorse, questa sconosciuta. Che cos'è, si mangia? Il ritratto tracciato dalla giornalista è impietoso (per chi fosse interessato, dare un'occhiata qui), ma veritiero: stanzette adatte a contenere cinquanta studenti riempite all'inverosimile, fino a contarne ventordicimila; aule da quattrocento posti occupate sì e no da venticinque persone. Si potrà dire: che senso ha confinare materie destinate a tutti i corsi di laurea in aulette striminzite, con la gente costretta a sedersi per terra o sulle scale, con buona pace della legge seiduesei, quando aule da mille milioni di posti sono destinate a filologia biblica, letteratura swahili o altri corsi con molto meno pubblico?
[NB: ho nominato materie a caso, io stessa sono stata un'assidua frequentatrice di corsi «di nicchia».]
La risposta, piuttosto piccata, è data da un appartenente alla genia dei supermegaordinari; è talmente geniale che ho scelto di soffermarmi sulla questione delle aule-pollaio, anche se molti altri problemi allietano la vita di Palazzo Gnu (sito inutilizzabile e conseguente impossibilità di iscriversi agli esami, bagni spesso inagibili, pioggia che percola dai soffitti a ogni cambio di stagione, e altre amenità). Udite udite: «Non è possibile fare scambi: le aule sono occupate. E anche se gli studenti di un altro corso sono pochi, non sarebbe fattibile: il relativo docente valuterebbe la proposta come una diminutio del suo onore». Ma non finisce qui. Il gentile professore ci fa omaggio di una reminiscenza dal passato: «I baroni, quelli veri, anche se avevano quattro studenti non ritenevano dignitoso fare lezione se non nelle aule più grandi».
Ecco, io mi soffermerei su quell'espressione, «quelli veri». Come a dire: guardate che questo è niente, quello era un comportamento da baroni, il nostro no. Peccato però che l'atteggiamento descritto sia all'incirca il medesimo. Torniamo all'inizio: cosachecosa?? Una diminutio? Dell'onore del docente? Ora, se proprio volessi fare la fiscale, potrei menarla con il fatto che un Cicerone, un Livio, un Cesare, un Tacito, uno Svetonio non avrebbero mai impiegato il termine diminutio (che non si trova prima di Igino e della Vulgata), ma casomai deminutio, e anche a non essere un latinista un ordinario afferente alla facoltà di Lettere e Filosofia non può permettersi di non saperlo; ma il punto non è questo. Costui ci viene a dire che non è possibile gestire in maniera sensata gli spazi di Palazzo Gnu perché alcuni docenti se ne strafottono degli studenti (e della logica) e ragionano in base all'equazione «aula grande = grande importanza». Un po' come a dire: ti danno il corso in aula 9, cinquanta posti, sei uno sfigato; aula 36, centosettanta posti, sei un figo; aula 1, quattrocento posti, sei Dio sceso in terra.
Fermo restando che, per fortuna, non tutti ragionano in questo modo, mi verrebbe da commentare una cosina: signori miei, la smettiamo di giocare a chi ce l'ha più lungo? Suvvia, la prima media è finita da un pezzo, siete degli ometti ormai.

sabato 13 ottobre 2012

Essere donna: regole


1. Il correttore è il tuo migliore amico.
2. La prova costume ti provoca tensione? La prova elastico dell'autoreggente è peggio.
3. Una settimana al mese hai il sacrosanto diritto di essere isterica.
4. In tempi lavorativi bui e difficili come i nostri, l'assunzione di contraccettivi diventa uno strumento sindacale.
5. I leggings non sono pantaloni, a meno che il continuum spazio-temporale non si sia rotto e questo non sia il 1989.
6. Tutti i «ti amo» del mondo non faranno mai un «ti trovo dimagrita».

domenica 7 ottobre 2012

Sono solo parole

Quando viaggio in treno, di solito, ne approfitto per portarmi avanti con la tesi. Scribacchio qualcosa, oppure leggo qualche libro o articolo che mi può servire, e ogni tanto do un'occhiata fuori e mi godo il panorama. Magari ascoltando qualche canzone rilassante, come questa. Questo pomeriggio, il libro in questione era un tomazzo da circa mezzo migliaio di pagine, per la precisione il secondo di una serie di soli dodici volumi. Se non altro è in francese, poteva andarmi peggio: l'autore avrebbe potuto scrivere, che so, in tedesco, polacco, ostrogoto, babilonese, lineare B. Il titolo, in italiano, suonerebbe più o meno Storia letteraria del movimento monastico nell'antichità. 
Appare chiaro che per leggere un libro del genere di domenica pomeriggio (cosa che andrebbe vietata dalla Convenzione di Ginevra) servono una concentrazione sovrumana e uno sforzo di volontà non indifferente, già in condizioni ottimali... figuriamoci su un Minuetto di pochi vagoni, carico di millemila persone, con l'aria condizionata al massimo fuori stagione, che ovviamente si ferma per svariati minuti e per nessun motivo nel Paese delle Coincidenze Perdute. Orbene: salgo a Città Mesopotamia, lotto per un posto, rispondo alle occhiate truci delle ragazzine chic con borsa Luivittòn d'ordinanza rimaste in piedi con uno sguardo di sufficienza del tipo «tzè, gioventù bruciata» e gonfio la pancia (l'effetto incinta-di-tre-mesi funziona quasi sempre), apro il mio bravo librone e mi metto a studiare le ultime novanta pagine.

E invece NO.

No, perché seduta di fronte a me c'è lei, l'Orrida, la Terribile, l'incubo di tutti i viaggiatori, il mostro di Loch Ness dei lettori ferroviari: l'anziana logorroica. Triste chi l'incontra! Presagio di sventura, destino rio! Per catturare la vittima, ella ha un metodo infallibile: getta intorno a sé occhiate furtive, aspettando d'incontrare gli occhi di qualche malcapitato. Mai, mai guardare nella sua direzione: come la mitologica Medusa pietrificava chiunque avesse la sventura d'incrociare il suo sguardo, così l'anziana logorroica considera il contatto visivo come un'autorizzazione a attaccare bottone senza pietà. Allora non importa quanto ti farai vedere scocciato, indaffarato, assonnato o sociopatico: la vecchia non ha alcun pudore, vince il premio Faccia di Bronzo ogni anno dal 1973 e se t'infili le cuffie aumenterà il volume della sua voce fino a sovrastare quello della musica. I discorsi di tale ominide s'inscrivono a pieno titolo nella Fiera del Luogo Comune, andando da «non ci sono più le mezze stagioni» a «ah, questi extracomunitari», passando naturalmente per il delitto Scazzi e per la strage di Novi Ligure (se non altro stavolta si è dimenticata di Cogne... senza offesa: vogliamo lasciarli riposare in pace, quei poveri morti?).
S'intende che questo è il modello base. Per i più fortunati c'è la versione full optional: l'anziana logorroica plus. A differenza dell'altra, quest'ultima è capace di attaccare bottone anche senza aver stabilito un contatto visivo, andando a importunare chi se ne sta per i fatti suoi, e di intavolare e mantenere conversazioni con più compagni di viaggio contemporaneamente, stracciando gli zebedei a tutti quanti.
La mia, ovviamente, era un'anziana logorroica plus.
Ho sopportato pazientemente dicendo addio a un'ora e mezza di studio, ma una soddisfazione ho voluto togliermela: quando ha attaccato con la solita storia degli extracomunitari, ho buttato lì un «guardi, signora, il mio fidanzato viene da {il primo Paese extra-UE che mi è venuto in mente} e, con tutto il rispetto, la prego di non venire a fare questi discorsi con me». In tono anche piuttosto seccato, per essere sicura che ci rimanesse di sasso. E che cavolo!

venerdì 5 ottobre 2012

Il galateo dell'e-mail

«Questa vita fatta di lezioni e professori assenti, file chilometriche per fare i documenti, prendere un bel 30 per sentirsi più felici ma sola e senza i tuoi amici».

Così cantava, qualche anno fa, Simone Cristicchi in Studentessa universitaria, che è un po' l'inno ufficiale delle ragazze che si ostinano a studiare in vista della laurea (ministro Fornero, mi spiace, non tutti si laureano «tanto per laurearsi» e giusto per avere un pezzo di carta in più, se ne faccia una ragione).
Ora, per fortuna la parte sulla solitudine e sull'assenza di amici non mi tocca; sono, anzi, convinta che si possa e si debba avere contemporaneamente una media molto buona e una vita. Su tutto il resto, invece, il Cristicchi ci ha preso in pieno. 
Per farla breve, ho la forte tentazione di scrivere a una certa docente: «Gentile professoressa, nei miei messaggi precedenti ho cercato di ignorare l'idiosincrasia che provo da sempre nei suoi confronti e di trattarla con il rispetto che merita il suo ruolo, non certo la sua buona creanza; tuttavia, dal momento che non si degna nemmeno di rispondermi muoia, dottoressa o qualcosa di simile, mi rimangio tutto quello che ho scritto e la mando molto carinamente a Quel Paese. Cordiali saluti, che poi vuol dire "crepi e sciopi al più presto"... almeno dalle mie parti, poi da lei non so».

domenica 30 settembre 2012

«Mamma, pare che sono santo!» (cit.)

Capita di scrivere una tesi su un autore che, non si sa bene come e perché, è stato fatto santo da quell'organizzazione che si definisce Santa, Romana, Cattolica e Apostolica. Il tizio in questione, in chi lo conosce, cagiona comportamenti opposti: gli studiosi sono troppo presi dalla vastità della sua produzione letteraria, esegetica e traduttiva, e anche dal suo caratteraccio, per ricordarsi che è un santo; il popolino devoto, di norma, non sa minimamente che quel testo che considera sacro è stato tradotto in latino dall'autore in questione... quella traduzione è stata in auge per oltre un millennio, ma sì, che cosa vogliamo che sia, bazzecole.
Al paese di mio padre, che per qualche imprecisato motivo ha questo popò di letterato come santo patrono, sono stata coinvolta in una conversazione di questo tenore.
Persona a caso: «Allora, Lucy, su che cosa stai facendo ricerca?».
Io: «Bah, sto studiando G.».
Lei: «G.? Intendi san G.??».
Io: «Sì, proprio lui».
Lei, visibilmente emozionata: «Ah, che bello! Però, non sapevo che avesse anche scritto qualcosa».
Io spero che il povero (san) G. non l'abbia mai saputo, altrimenti si sarà rivoltato nella tomba. Tanto più che, oltre a vegliare su quello sperduto paesello sulla collina aspromontana, secondo il cattolicesimo quel pazzo grafomane è il patrono degli studiosi, degli studenti, dei letterati e, nell'epoca di Internet, anche di noi blogger.
Si dà il caso che il giorno in cui si festeggia il suddetto santo sia oggi. Fin qui, nulla di strano. I problemi cominciano quando un certo docente, fissato con G. molto più di me, e che in teoria dovrà un giorno firmare la mia tesi, mi scrive su FB per farmi gli auguri di buon G-day. L'unica altra volta che costui mi ha mandato un messaggio, era per rinfacciarmi una mezza castroneria per la quale mi sfotte ancora oggi... chiaramente mi preoccupo!
Caro G., non ti ho mai pregato, ma forse è il caso che cominci a vegliare su di me. Ah, e già che ci siamo, buon complemorte numero 1592.

venerdì 28 settembre 2012

Gente perbene

Qualcuno deve spiegarmi per quale accidenti di motivo gli appartenenti alla sciagurata genia dei padroni di casa amino presentarsi come i salvatori della patria, quelli tanto buoni che ti sistemano l'appartamentino alla perfezione (e poco importa che in realtà sia talmente poco perfetto che dovrò ripassarci da capo), quelli che questa casa è un affarone e te l'affittiamo per tot quando potremmo chiedere il doppio (s'intende che, soprattutto di questi tempi, se l'affittassero al doppio la casa resterebbe sfitta nei secoli dei secoli), quando in realtà stanno solo cercando il modo migliore per fregare te o il fisco, possibilmente entrambi.
Se siamo in tre, il contratto lo fai a tre, non a due, altrimenti uno di noi non avrà alcuna tutela. Se l'affitti a tot, non dichiari la metà (ma come, quel tot poco fa non era una cifra irrisoria?) venendo a piangere da me che altrimenti non guadagni nulla perché Monti ti sta strangolando. Affari tuoi, non miei. Se affittare una casa non ti conviene hai solo da venderla e monetizzare. La sai la novità? Il fisco esiste per tutti, le tasse le pago anch'io, e le pago tutte! Povera idiota che sono, a momenti dichiaro anche quante mutande ho nel cassetto, povera cretina che non so fare la furba e fottere il sistema... è che ai furbi ho sempre preferito gli intelligenti, i lungimiranti, quelli che sanno guardare al di là del proprio naso e del loro misero orticello (maledetto Guicciardini e il suo particulare). Anche senza mettere in mezzo l'etica, ché per farlo bisognerebbe prima di tutto accertarsi di averne una, basterebbe pensare che è il momento più sbagliato della storia per ordire e brigare: ohibò, la Guardia di Finanza sta mettendo pressione su un mucchio di fuori sede perché denuncino i contratti irregolari o l'assenza di contratto, per chi sgarra scatta una bella multa di duemila euro. Ohibò, Coinqui GL fa parte dei fuori sede. Chissà quando arriverà la letterina della Finanza anche a lei? 
Ecco, prima di tirare a fregare il sistema senza avere i mezzi per farlo, io ci penserei due volte.

mercoledì 26 settembre 2012

Casino!!

Contratto di affitto in scadenza, trasloco in avvicinamento.
Valigie ammassate, scatoloni, borse, zaini.
Un'auto vecchissima che non può entrare nella ZetaTiElle.

Aiuto aiuto.

lunedì 24 settembre 2012

(postilla) La prof 'stica...

Di ritorno dall'esame di cui parlavo stamattina realizzo con terrore che, se ho passato un certo scritto di cui saprò l'esito solo a metà ottobre (ma certo, prof, faccia con comodo, ci metta pure un mese a correggere una pagina, tanto non mi devo laureare), quello di oggi sarà stato l'ultimo esame della mia vita. Mica pizza e fichi! Terrore? Sì, non so perché, forse sarà qualcosa di simile alla sindrome di Stoccolma.
Tra le tante tipologie umane e subumane che ho incontrato, però, ce n'è una alla quale non mi sono mai affezionata. Anzi: la odio con tutte le mie forze, la detesto con ogni fibra del mio essere, la schifo proprio (quest'ultima parte va letta con una spiccata cadenza napoletana, altrimenti non rende l'idea). Si tratta della professoressa, o del professor, 'STICAZZI.
Chi non ne ha mai avuta/o una/o?
La prof 'sticazzi sta all'insegnamento come Hannibal Lecter sta alla nouvelle cuisine, come il mostro di Firenze sta alla galanteria, come Nicole Minetti sta al buon gusto. Ella è l'esatto contrario di quello che una professoressa dovrebbe essere ed è l'incubo di ogni studente, universitario e non. Ordinaria da millemila anni, di norma si circonda di assistenti che presi singolarmente rivelano ancora qualche traccia di calore umano, ma che in sua presenza si tramutano in leccapiedi-e-altro-senza-speranza e si adeguano allo standard vigente: sensibilità di un termosifone e buona creanza sotto zero. Il grande segreto della prof 'sticazzi, che è alla base della sua sconfinata maleducazione e di tutte le sue mancanze, è un'atavica frustrazione per via del fatto che non esiste un corso di laurea nella sua materia, di cui diverrebbe istantaneamente il grande capo, ma soltanto uno sfigatissimo corso interfacoltà frequentato da circa due persone all'anno. La sua frustrazione si riversa sui malcapitati studenti, obbligati a dare esami inutilissimi nella sua materia, in un numero che va da due a +infinito, per potersi laureare.
[Precisazione necessaria: non è la materia in sé a essere inutile, tutt'altro. Inutile è la massa di nozioni che pretende di fare studiare, per giunta su un libriccino da ottanta euro, e guai a farsi beccare con una copia della biblioteca!]
Nulla esula dal suo programma. Al suo esame, un'ora di tempo per scrivere la Divina Commedia, possono capitare domande come queste:
«Il modello di Christaller nella localizzazione delle attività economiche sul territorio».
«La cartografazione cabreistica e l'etimologia di cabreo tra il franco-provenzale e l'Ordine di Malta».
«Le lezioni di Lagrange all'Istituto Topografico nel Regno di Sardegna».
'Sticazzi! Chiaramente non lo scrivi, ma lo pensi. E non provare a obiettare che mai, nella vita, neppure nella malaugurata ipotesi di finire a fare il/la prof di geografia, ti passerebbe per l'anticamera del cervello di tenere una lezione sull'antenato del catasto, sugli ingegneri militari di casa Savoia o su fantomatiche aree di mercato di forma esagonale! Non importa che tu sia un filologo classico, un archeologo, un dipendente dell'Archivio di Stato, un giornalista, un insegnante o chissà che altro: per la prof 'sticazzi devi essere onnisciente, conoscere a menadito il prezzo delle mappe cinquecentesche, essere ferratissimo in scienze dei terreni agricoli del Basso Monferrato (dimenticavo: la prof è tenacemente abbarbicata alle sue radici, tutto ciò che varca i confini regionali è il Male Assoluto e non merita di essere considerato) e, perché no, avere una discreta competenza anche in Scienza della Supercazzola con Scappellamento a Destra.
L'acme viene raggiunto quando si tratta di sfoderare inesistenti norme burocrat-accademiche alle quali, com'è ovvio, la prof 'sticazzi è ligia più di chiunque altro al mondo:
«Non è possibile ridare l'esame nella medesima sessione, anche se ci sono tre appelli bisogna aspettare la prossima!»
«Lo statino non si porta al momento della registrazione, bensì a quello dello scritto, e se non l'avete scordatevi pure di dare l'esame!».
«Se tu sei bella e bionda grida ooh - ooooh!».
A farne le spese sono, soprattutto, le povere matricoline inesperte. Sperdute nel tentacolare mondo universitario, non hanno ancora imparato a non prendere sul serio la prof 'sticazzi e si lasciano influenzare dal suo mefitico potere. Prima o poi, però, impariamo tutti, e tutti siamo accomunati dal desiderio di guardare negli occhi quell'essere immondo e vomitare sulla sua faccia tutto il male che ne pensiamo.
Una scena alla Notte prima degli esami, ecco.